Opera di Firenze: stagione estiva

Palazzo Pitti, una Cenerentola da favola. E una regia che incanta.

Torna a Firenze il capolavoro rossiniano nel magnifico sfondo del cortile dell'Ammannati.

di Domenico Del Nero

Palazzo Pitti, una Cenerentola da favola. E una regia che incanta.

Fu proprio lui, Rossini, a scegliere il soggetto per Cenerentola e a dettarne le linee al librettista. A smentire il luogo comune  di un compositore sostanzialmente indifferente ai testi che musicava (smentita che vale comunque anche per i capolavori precedenti) sta proprio la determinazione con cui il sommo pesarese affrontò il soggetto un po’ trito e ritrito della nota favola di Perrault: come ricorda Luigi Rognoni, Rossini fu incontentabile con il  librettista e volle tradurre la favola “ in una commedia realistica in cui i caratteri dell’epoca fossero puntualizzati e canzonati. Bisognava dunque far scomparire ogni elemento favolistico  e incantatorio e trasformare Cenerentola in una buona ragazza, sentimentale ed ingenua, figlia di un nobile spiantato balordo ed ambizioso, sorellastra di due borghesucce pettegole e boriose, sposa infine ad un principe intelligente ed umano che vuole scegliersi la compagna della propria vita superando ogni pregiudizio e convenzione …” [1]

E non ci sono dubbi che fu ancora una volta servito bene, anzi meglio del solito. Jacopo Ferretti  (1784- 1852) è una figura di letterato che andrebbe forse riscoperta e considerata con maggiore attenzione: fece come tanti il suo apprendistato nello stagnante ambiente dell’Arcadia (fu persino sottocustode nel  1806) ma proprio in Cenerentola sembra fare giustizia di tutta la pletora di cagnoletti e Tisbine ( non per nulla le sorellastre di Cenerentola, perfetto prototipo di due oche fatue e giulive, si chiamano Clorinda e Tisbe, nomi  di repertorio nelle mielose svenevolezze arcadiche).  Più volte nella bellissima poesia del  libretto si avverte una garbata parodia della maniera dell’Accademia anche nell’aria d’entrata di Dandini,  Come un’ape nei giorni d’aprile ). Un testo dunque di ottima fattura, che trasforma una favola in una commedia  con una garbata -  ma a volte pungente -  satira di certe figure ormai  avvizzite dei suoi tempi, con un tocco che non sarebbe probabilmente spiaciuto all’ultimo Parini.

La lettura fiorentina della regista Manu Lalli, che da anni collabora con l’Opera di Firenze negli spettacoli di Venti Lucenti,  rende perfettamente lo spirito che librettista e compositore hanno voluto dare all’opera. Non solo, ma questa chiave si sposa perfettamente con lo sfondo del cortile dell’Ammannati, in quel Palazzo Pitti che fu davvero una reggia principesca tra le più splendide d’Italia.  Nel corso della conferenza stampa di presentazione, la regista aveva parlato infatti di un’opera che non era affatto “di evasione”, ma perfettamente inserita – e critica – nello sfondo sociale del suo tempo: figure come Don Magnifico, nobile spiantato e anche disonesto, non erano certo inusuali  nell’Italia postnapoleonica e altrove. Ma non c’è  solo questo:  Manu Lalli legge l’opera come una vera e propria “storia di formazione”, un filone caro all’incipiente romanticismo italiano (siamo nel 1817, poco dopo la celebre lettera di Madame de Stael e poco prima dei Promessi Sposi) in cui la ragazza buona e ingenua, che però Rossini e Ferretti vollero come creatura viva e non personaggio “da favola”, prende consapevolezza della sua maturazione e nel finale abbandona i suoi sogni di ragazza, compresa la “fatina dei libri” che la salutano facendo malinconicamente fagotto.  Unico tocco particolare e molto gradito è infatti la passione di Cenerentola per la lettura, ovviamente non condivisa dal resto della “famiglia”; elemento che consente di ricuperare un tocco di “sovrannaturale” con una deliziosa fatina dei libri, oltre che con eteree e bravissime ballerine . Ma per l’appunto, il mondo dei libri è spesso un “altrove” e Cenerentola una volta salita al trono dovrà invece confrontarsi con la realtà.

 “Lo spettacolo si apre con una scena nel salone del barone Don Magnifico, dove la dolce Cenerentola accoccolata vicino al camino, legge di nascosto un libro.
“In questa immagine sta tutta la regia dello spettacolo. La versione che stiamo mettendo in scena infatti racconta di una giovane donna orfana di entrambi i genitori che ha vissuto un’infanzia felice in una famiglia colta e benestante, in una bella casa piena zeppa di libri. Alla prematura morte del padre la madre si è risposata con un sedicente barone Don Magnifico che giunge in casa con le sue due figlie di un precedente matrimonio, Clorinda e Tisbe. Ma, ahimè, come in tutte le fiabe, anche la madre di Cenerentola muore.”
È così che la piccola Cenerentola si trova vessata delle sue brutte sorellastre, ignoranti e civette, intente solo ad abbigliarsi e a caccia di marito, e dal patrigno che sperpera tutta la ricchezza lasciatele dalla sua famiglia, che ordina ai due unici servi rimasti scalcinati e stralunati di “eliminare” (bruciare) la biblioteca per far posto alle nuove camere delle sue cattive figliole” -  dichiara la regista che sa cogliere perfettamente quel tocco di umanità e di delicatezza in più che Rossini pone in quest’opera, senza rinunciare  ad effetti decisamente comici,  ma che prelude ormai proprio per il carattere della protagonista agli sviluppi “semiseri” della produzione successiva.

Molto belle nella loro semplicità le scene di Roberta Lazzeri:  la stanza di un castello barocco, con  due camere delle sorellastre  ai lati che vengono poi girate per fare spazio ai saloni della più elegante e spaziosa reggia principesca. I costumi settecenteschi di  Gianna Poli sono molto eleganti senza essere leziosi o “archeologici” e si intonano perfettamente al contesto, sia scenico che … del palazzo autentico.

L’Orchestra e il coro del  Maggio Musicale Fiorentino hanno fornito come di consueto una prova eccellente, dimostrando di riuscire a donare le preziose e dionisiache sonorità rossiniane anche in un contesto all’aperto dove l’acustica non è certo quella del teatro. Merito anche di una direzione convincente e molto ben calibrata, quale quella del maestro Alessandro d’Agostini, che ha dato una lettura scattante e veloce, con tempi spediti che consentono di gustare al meglio pagine come la sinfonia o i concertati (segnaliamo solo tra le altre pagine il vertiginoso finale Mi par d’essere sognando) , senza per questo però mai soverchiare le voci a cui ha offerto invece un ottimo sostegno e sottolineando al meglio anche i momenti più lirici e intensi della partitura, come l’aria Una volta c’era un re.

Decisamente buono nel complesso anche il cast vocale, quasi tutto composto da giovani promesse. Già più collaudato certo Marco Filippo Romano, il giovane baritono siciliano la cui voce è stata non a torto accostata a quella di Sesto Bruscantini. Romano ha offerto una prova splendida sul piano scenico, presentando un don Magnifico “buffo” nella migliore tradizione rossiniana (evitando però di scivolare nella macchietta) ma anche con punte di “cattiveria” e di cinismo che si adattavano perfettamente alla lettura della regista; e con una voce robusta e bene intonata,  oltre che con un ottimo fraseggio.

Sempre sul piano dei “buffi” eccellente anche la prestazione di Giorgio Caoduro, un Dandini scanzonato e irriverente,  ma anche baritono fornito di voce ampia e capace di notevoli agilità,  che affronta con sicurezza anche i passaggi più ardui.  Dotato di un bel timbro scuro e di piglio sicuro,  è stato lodevole sia sul piano scenico che su quello vocale.

Anche se la sua parte nella vicenda è senz’altro più limitata (ma non meno importante) il basso  Mirco Palazzi ha dato vita a un Alidoro dotato di un buon timbro e di una discreta potenza, che ha dato nel complesso buona prova di sé nell’aria Là del ciel nell’arcano profondo.

 Il tenore  Matteo Marchioni (Don Ramiro) ha fornito una prova nel complesso positiva: la sua voce non è molto potente e lo si sente soprattutto negli acuti e in una certa “cautela” con cui affronta i passaggi più ardui, ma è apprezzabile nel registro centrale e la linea di canto è pulita e accurata.

Sul lato femminile, molto ben caratterizzate la Clorinda di Francesca Longari e la Tisbe di Ana Victoria Pitts, dotata di un timbro piacevole e di un buon volume di voce.  Per quanto riguarda la protagonista, Josè Maria  lo Monaco,  ha qualche problema nel registro grave e soprattutto in quello centrale; nei passi più concitati (ad esempio nel finale dello splendido primo concertato Questo è proprio uno strapazzo ) perde quasi del tutto di consistenza.   Ma si rifà ampiamente nel fraseggio e nelle colorature e soprattutto nel registro acuto e nel complesso il suo è un personaggio  più che apprezzabile. Molto calibrata di buon gusto anche l’esecuzione del rondò finale.

Insomma, uno spettacolo più che da vedere ….DA NON PERDERE. Prossime repliche 21,27 e 30 giugno, ore 21,15.

 



[1] Luigi ROGNONI, Gioacchino Rossini, Torino, Einaudi, 1977, p.87.

 

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