OPERA DI FIRENZE: 80° Maggio Musicale.

DON CARLO: Il Grand Opera di Verdi sulle scene del Maggio Musicale.

L'edizione del capolavoro verdiano piace al pubblico ma divide la critica. Peplessità soprattutto sulla regia.

di Domenico Del Nero

DON CARLO: Il Grand Opera di Verdi sulle scene del Maggio Musicale.

Un Don  Carlo all’insegna della polemica. Il Grand Opera verdiano, in scena in questi giorni al Maggio Musicale Fiorentino, piace al pubblico ma lascia perplessa parte della critica, che ha rilevato numerosi difetti alla prima rappresentazione. Traspare nel complesso un senso di delusione, sia per la direzione di Zubin Mehta che soprattutto per la regia di Giancarlo del Monaco.

Tuttavia, alcuni dei difetti rilevati all’esordio sembrano attenuarsi nelle repliche: in primis, il senso di scollamento tra golfi mistico e palcoscenico, si è sentito solo molto occasionalmente e perlopiù nella prima parte, durante le repliche.  Alla direzione del maestro Mehta è stata rimproverata sostanzialmente una certa discontinuità: solo alcune scene, come quella del giardino del primo atto, renderebbero perfettamente  lo spirito di una partitura che, non lo si dimentichi, presenta una strumentazione molto più curata ed attenta delle opera precedenti.

Non tutto fila sempre liscio :  ma  l’orchestra e il coro (diretto da Lorenzo Fratini)  hanno offerto sicuramente una splendida prova, Mehta ha ritrovato in quest’opera uno slancio che nelle ultime opere sembrava aver perduto (si pensi solo al Falstaff ): un suono nitido e levigato,  i vari colori della partitura ben evidenziati, la grandiosità e l’effetto delle scene corali che non vengono mai sacrificate senza per questo scadere nella “retorica”.  Notevoli poi il pathos e la poesia di alcune introduzioni strumentali, come quella alla scena forse più celebre dell’opera, Ella giammai m’amò, uno dei rari momenti di umanità  di Filippo II di Spagna, tiranno “da manuale” secondo Schiller (e poco prima di lui, Alfieri) che non esita ad accogliere la leggenda nera sul sovrano spagnolo (e tutte le dicerie, prive di fondamento) della relazione tra Don Carlo ed Elisabetta per costruire un dramma “titanico” con i colori dell’ormai prossimo romanticismo.

In alcuni momenti invece è sembrato che il maestro si sia accontentato  di una routine ormai ben collaudata (Mehta del resto conosce benissimo questa partitura, che ama particolarmente) ma nel complesso le critiche mosse al grande direttore appaiono questa volta eccessive; può darsi che la prima abbia lasciato per certi aspetti a desiderare, ma nelle repliche Mehta ha decisamente aggiustato il tiro ed ha dato una lettura che ha saputo in più punti, coinvolgere ed emozionare.

Decisamente più discutibile, per non dire deludente la regia di Giancarlo del Monaco che prova, se mai ce ne fosse bisogno, che non è sufficiente a una regia essere “tradizionale” per piacere  e convincere.  

Le scene ( di  Carlo Centolavigna) prevedono una sorta di “scatola” parzialmente scomponibile, su cui è dipinta una sorta di cosmografia universale in oro, rappresenta l’impero su cui “non tramonta mai il sole” e si apre all’occasione per far intravedere squarci paesaggistici, o la scena dell’auto da fè. Il tutto è sicuramente molto suggestivo e d’effetto, come lo sono i bellissimi  e sontuosi costumi di Jesús Ruiz. Il problema è che però lo spettacolo non decolla: troppa staticità nei movimenti scenici, l’impressione generale è di una algida rigidità in un contesto che dovrebbe invece rappresentare il fasto del trono e dell’altare da un lato e uno scontro di violente passioni dall’altro. Ingombrante, e persino imbarazzante, la colossale statua del Cristo nudo nell’auto da fè che riproduce il Cristo Crocefisso del Cellini. Discutibile poi il finale, in cui il regista si prende la libertà di stravolgere quello che vollero Verdi e i librettisti: Filippo uccide, addirittura di propria mano, il figlio ribelle, mentre l’opera avrebbe dovuto concludersi con il salvataggio, al limite del sovrannaturale, del giovane Carlo da parte del nonno Carlo V,   monaco (o fantasma) che lo prende con sé e lo porta nel chiostro. Sembra quasi che il regista abbia voluto inserire per forza degli elementi innovativi senza però armonizzarli con il contesto generale che era di tutt’altro tenore.  

Più che positivo nel complesso il quadro delle voci, che è andato sempre migliorando tra le seconda e la terza rappresentazione. In quest’ultima poi Giovanna Casolla ha dovuto sostituire veramente all’ultimo minuto Ekaterina Gubanova (indisposta) nel ruolo della principessa Eboli. Non l’ha certo fatta rimpiangere e non perché la prova della Gubanova sia stata negativa: la mezzosoprano aveva dato buona prova di sé nella bellissima e spagnoleggiante canzone del velo del primo atto, grazie al buon fraseggio e una calibrata coloratura; ma malgrado una tecnica tutto sommato impeccabile, non era andata oltre una prova dignitosa. La Casolla (classe 1945!) interprete di grande esperienza,  un soprano drammatico capace di affrontare adeguatamente anche ruoli di mezzosoprano ed Eboli è sicuramente uno di questi: oltre alla potenza e una freschezza di voce ancora di ottimo livello, con un registro acuto svettante e sicuro  Giovanna Casolla ha dato vita a un personaggio molto più convincente e affascinante, muovendosi con agilità e disinvoltura anche maggiore degli altri interpreti. Particolarmente emozionante la scena della confessione ad Elisabetta nel terzo atto (sì, son io che v’accusai). E’ stata  la star della serata e il pubblico l’ha applaudita con particolare calore ed affetto: meritatissimi.

Per quanto riguarda il resto del cast, anche qui i pareri sono stati contrastanti. A parte il “crescendo” tra una rappresentazione e l’altra, c’è da chiedersi però se  certi giudizi non siano a volte un po’ troppo pedanti. E’ sicuramente giusto, anzi doveroso sottolineare anche i difetti e i limiti, non solo i pregi di una voce, a patto però per l’appunto di prendere in considerazione anche questi e di tracciare poi un bilancio finale oggettivo. E allora il  verdetto sulle voci di questo Don Carlo è senz’altro positivo, anche se una certa “latitanza” della regia ha sicuramente inciso sulla resa dei personaggi.

Il Filippo II del basso Dmitry Beloselskiy colpisce sicuramente per il volume della voce e la correttezza della linea di canto.  Manca però “il personaggio”: lo si vede soprattutto nella celebre e splendida aria dormirò sol nel manto mio regal, eseguita con discreta tecnica, ma con una freddezza e una mancanza di passione che non rendono onore a un personaggio  come questo. Il Marchese di Posa (Rodrigo) del baritono Massimo Cavalletti rivela una buona dizione e un  buon fraseggio , oltre a timbro caldo  e piacevolmente “baritonale”. Oggetto di qualche pur isolata contestazione alla prima, la sua prestazione è andata decisamente migliorando per attestarsi su una resa del personaggio tutto sommato convincente e non privo di fascino.

L’Elisabetta di Julianna di Giacomo ha dimostrato una buona vocalità, particolarmente nel registro acuto, oltre a un discreto volume. Di particolare effetto la scena finale Tu che le vanità, con un buon fraseggio e un effetto drammatico convincente.

Roberto Aronica (che ha dovuto sostituire il previsto Fabio Sartori) è dotato di voce ampia e calda, gradevole nel centro e che si slancia con sicurezza negli acuti, anche se non tutti i passaggi sono perfettamente centrati. Nel complesso comunque prova decisamente buona, anche se il personaggio scenico è risultato inferiore alla prestazione vocale.

Infine, molto … inquisito è e stato il grande Inquisitore del basso Eric Halfvarson, che in effetti però lascia molto  a desiderare: intonazione pronuncia “discutibili”, cerca di dar vita a una sorta di  “mostro” che canta con una voce tanto cavernosa quanto arida. Ma non è certo uno dei ruoli principali, anche se nella vicenda ha una grande importanza.

Il pubblico comunque non ha risparmiato applausi e giustamente perché lo spettacolo merita. Rimane una sola replica,  domenica 14 maggio alle 15,30.

 

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