Editoriale

Egocentrismo, egolatria, egotismo. Solo arroganza o...

Se la supremazia dell'io non è supportata da cultura intelligenza spinte dalla passione è un vero guaio

Dalmazio Frau

di Dalmazio Frau

avo oggi di alcune cose con un caro Amico, Adriano è uno dei pochi, e questo mi ha fatto porre un’ennesima volta alcune domande, in apparenza slegate tra loro, ma che da molto tempo si ripresentano sistematicamente alla mia attenzione, sapendo comunque di non essere l’unico ma, semmai, soltanto l’ultimo a porsele.

Perché scriviamo, dipingiamo, suoniamo o recitiamo? In effetti potremmo anche non farlo, soprattutto in un tempo e in un mondo come questo che relega le arti tra le cose superflue, anteponendo loro altre attività considerate di primaria importanza. Alcuni dotti e sapienti, quelli sempre pronti a vedere la pagliuzza nell’occhio altrui e mai la trave nel proprio, si ergeranno subito con il dito indice e vindice, gridando all’”Egocentrismo” o alla “Vanità” e nel mio caso specifico dunque al “Dalmaziocentrismo”.

Anche questa storia del vituperare in continuazione l’Ego, poi, forse, sarebbe ora si ridimensionasse, perché l’Ego lo abbiamo tutti, in varia misura, ed è ciò che ci rende anche differenti gli uni dagli altri, è ciò che ci fa prendere coscienza di essere “differenti”, poi, come ogni cosa, se eccessivamente presente diviene un tossico, un veleno che distrugge invece di essere un motore per le nostre azioni. Ma l’eccesso egotico è sempre quello altrui, ci avete fatto caso? Quindi mi dichiaro a favore di una salvaguardia del proprio Ego, mantenuto libero e vitale in una zona protetta, dalla quale non possa espandersi e prevaricare come avviene in troppi casi, e allora, allora sì, è giusto che intervengano le “guardie venatorie” ad abbatterlo sull’istante. Perché l’Ego ipertrofico compie terribili misfatti quando è supportato soltanto da incapacità, arroganza, presunzione e maldicente invidia.

Dunque perché scriviamo o dipingiamo o facciamo musica? Per un “impulso solitario” come cantava W. Butler Yeats, con un moto quasi bergsoniano, in ossequio a uno “slancio vitale”? O lo facciamo perché vogliamo gli applausi, i “mi piace” su Facebook delle “cortigiane digitali”, la considerazione dei nostri “amici”, “amanti”, “mogli”, “fidanzate”? Forse per riempire quell’horror vacui che ci prende quando pensiamo al tempo che fugge e ci rendiamo conto che inesorabili e rapidi vanno via i giorni e presto o tardi, ma sicura, dovremo confrontarci con la Morte? Agiamo per lasciar traccia piò o meno imperitura di noi stessi? Lo fanno anche gli idioti che pongono la loro firma con il pennarello indelebile su un affresco pompeiano.

Inseguiamo il plauso ed il consenso, è normale, anche se io personalmente pur avendo sempre amato il secondo ho preferito coltivare il dissenso, ed è una delle infinite ragioni per le quali adoro le polemiche. Polemos in greco antico era la battaglia, lo ricordo per qualcuno e non i risibili flame su un gruppo di Fb.

Ognuno di noi di certo ha il proprio “perché”, ma dal momento che non sono mai stato relativista sono anche certo che debba esistere – ed esiste – un perché di ordine superiore e metafisico. Perché dunque disegnamo, scriviamo, componiamo? Perché deve essere fatto, e non lo può né deve fare nessun altro se non noi. È come andare in battaglia, siamo noi a doverci armare ed entrare in campo, noi e soltanto noi, e lo facciamo perché va fatto. Punto.

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