Editoriale

Quel pasticciaccio brutto del Campidoglio a 5Stelle

Con Virginia Raggi sembra tramontare definitivamente il modello del giovane politico/non politico. Torneremo finalmente a formare amministratori che sappiano quello che fanno?

Giuseppe del Ninno

di Giuseppe del Ninno

e vicende che fin dallo scorso luglio stanno causando una serie di sofferenze alla Sindaca Raggi presenterebbero connotazioni grottesche, se non imprimessero il loro marchio sulla pelle dei cittadini di Roma. Già le scelte tardive e contrastate della squadra avevano messo in discussione la sindacatura e alimentato i dubbi sulla validità della classe dirigente “grillina”; poi le nubi addensatesi sul capo dell’Assessore all’Ambiente Paola Muraro e subito dopo le dimissioni del Capo di Gabinetto, dell’Assessore al Bilancio e dei vertici delle principali municipalizzate (anche in esito al parere espresso dall’Autorità anticorruzione, peraltro richiesto dal Sindaco medesimo a nomine avvenute); seguivano riunioni con il Direttorio Uno (nazionale) e Due (comunale), dalle quali appariva evidente che la Sindaca non è del tutto autonoma nelle sue decisioni; scambi di mail con i vertici del Movimento, con informative dagli stessi prima misconosciute, poi ammesse, circa l’iscrizione della Muraro nel registro degli indagati; ulteriori dimissioni preannunciate e una tregua promossa da Grillo e che ha tutta l’aria di essere fragile, mentre inutilmente i cittadini romani – e non solo quelli che la Raggi l’hanno votata – attendono un segnale di cambiamento nell’amministrazione di questa disastrata città. Il tutto, sullo sfondo di polemiche sulle retribuzioni e i benefit dell’ampio staff del Sindaco, ma soprattutto di lotte intestine senza esclusione di colpi, all’interno del Movimento.

Verrebbe da invocare, almeno per la Capitale, l’avvento di un “Papa straniero”, di un Primo Cittadino da collocare in Campidoglio per chiara fama o come vincitore di un apposito bando, un po’ come è stato fatto con alcuni Direttori di importanti Musei (e vi risparmio l’esempio degli allenatori presi all’estero per le squadre di calcio); un “papa straniero” meno sensibile e meno vulnerabile rispetto ai “poteri forti”, che a nostro avviso vanno individuati soprattutto all’interno della “macchina” comunale, e magari da tutelare con appositi provvedimenti e, soprattutto, con un vero statuto di Capitale per Roma. Lo dico tra il serio e il faceto, per uscire dall’impasse, ben sapendo che, ovviamente, non se ne farà nulla.

Ormai sembrano accertati due dati di fatto: primo, nessun Partito e nessuna personalità sembra adeguata ad amministrare Roma; secondo, la crisi nella quale si dibatte il Movimento Cinque Stelle, da quando ha cominciato ad assumersi responsabilità di governo delle città, si aggrava di giorno in giorno e, con il caso romano, minaccia di ripercuotersi sul futuro stesso del Movimento, che si sta scoprendo “uguale” agli altri, essendo partito dalla presunzione di una diversità morale, se non addirittura antropologica (un po’ come avvenne al PCI e ai suoi eredi, i quali pure, alla prova del governo, scoprirono di non essere impermeabili alla corruzione ed esenti dall’inadeguatezza: “mafia capitale” docet).

Riguardo al primo punto, le avvisaglie si erano avute già in occasione della scelta dei candidati, quando nessuno degli uomini – e delle donne – di spicco dei vari partiti aveva accettato di concorrere, con l’eccezione  di Giorgia Meloni, eliminata dal gioco, come sappiamo, dalle impuntature di Berlusconi. Quanto al secondo punto, e cioè le difficoltà del Movimento nell’affrontare il governo delle città, per tentare di spiegarne l’evoluzione, occorre spendere due parole sull’attuale consistenza e natura di quella aggregazione e dei partiti in generale.

I Cinque Stelle rappresentano un tentativo di superamento dei vecchi partiti ideologici, basato su alcune prerogative, che qui enumeriamo a titolo di sintesi esemplificativa: democrazia diretta telematica, con ricorrenti consultazioni in rete; adesione a una sorta di “carta costituente interna”, che prevede come cardini fattori prepolitici quali l’onestà e la trasparenza; uguaglianza assoluta di tutti gli aderenti.

Ora, ciascuno di questi principi presenta criticità di non poco conto, e lo dimostra proprio la breve storia del Movimento, intessuta di espulsioni, di sospetti, di spaccature (paragonabili alle correnti dei partiti di vituperata memoria), soprattutto di contraddizioni. Intanto, la conclamata uguaglianza viene smentita tutti i giorni – e fin dall’origine, vista l’importanza decisiva dei fondatori, l’ideologo Casaleggio e il capopopolo Grillo – con l’affermazione “darwiniana” dei migliori, vale a dire di quegli “animali politici”, di quei leader, senza i quali nessuna politica è mai possibile. Si aggiunga che la verifica delle competenze affidata a una sparuta minoranza di seguaci del blog “grillino” può riservare sorprese sgradite. Che poi le decisioni politiche possano essere assunte sistematicamente in streaming, è smentito non solo dalla plurisecolare tradizione degli Arcana imperii, ma, più modestamente, dalle recentissime vicissitudini dei Di Maio & Co.

Vi è poi un altro lato debole, che consiste nella sottovalutazione dei legami con i territori e, dunque, con gli elettori, i cui orientamenti, peraltro, sono ormai quanto di più instabile si possa immaginare, svincolati come sono da qualsivoglia progetto ideale: la relativa vischiosità dimostrata finora, che ha proiettato il Movimento ai vertici dei consensi popolari, è riferibile essenzialmente allo tsunami di sfiducia nei confronti dei partiti “tradizionali”; ma è da dimostrare che il probabile ripetersi di casi come quello di Parma, di Quarto, di Livorno e, soprattutto, di Roma, non vada a ridimensionare in misura significativa quel consenso, motivato non già da profonde appartenenze, ma sulle aperture di credito in bianco basate sulla sola onestà, senza il corroborante della capacità. Ne soffrirebbe tutto il sistema, con la crescita degli egoismi di singoli e gruppi, lo strapotere dell’Europa, la crescita esponenziale dell’astensionismo.

Dicevamo del “progetto”: è proprio questa visione prospettica, in grado di andare al di là delle continue emergenze, il tratto mancante a tutta la politica italiana, anche quando amministra le città. Si tamponano i buchi di bilancio, si rincorrono i grandi eventi e, appunto, le emergenze, ma nessuno si mostra capace di coinvolgere, anche emotivamente, i cittadini. La stessa “spremitura” fiscale, sarebbe forse più tollerabile, se la si inquadrasse in una grande visione del futuro comune.

Facciamo un esempio: personalmente, sono contrario alle Olimpiadi di Roma (altro capitolo di ambiguità della giunta Raggi), in quanto, allo stato, non è chiara la provenienza delle ingenti risorse necessarie e, soprattutto, la stessa città non sembra in grado di offrire garanzie di buona riuscita, con il suo apparato viario, i suoi trasporti, la sua burocrazia che tiene in scacco politici ed amministratori pubblici, la corruzione diffusa, il problema dei rifiuti e via lamentandosi. Tuttavia, quando si parla di progetti, il primo che viene in mente è rappresentato appunto da un’impresa collettiva di portata internazionale, come un’Olimpiade. Mobilitazione generale – di istituzioni, statali e locali,  e di privati - e rigidi sistemi di controllo: su queste basi, la rinascita della Città Eterna  avrebbe qualche chance di essere realizzata, malaffare e speculatori permettendo.

Ne sarà capace questa giunta? Ne sarà capace questo governo? Sarà all’altezza della sfida la cosiddetta società civile? Sarebbe questo il momento di rispondere col pessimismo della ragione, temperato dall’ottimismo della volontà.

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