Storie di fine estate.

Capraia: una perla dell’arcipelago toscano. Con il mistero di un carcere che creava ricchezza ma ….

Nel cuore dell’isola le rovine della colonia penale: edifici e strutture che avrebbero potuto essere preziose e raccontano una storia tutta italiana.

di Domenico Del Nero

Capraia: una perla dell’arcipelago toscano. Con il mistero di un carcere che creava ricchezza  ma ….

La diramazione Aghiale

Una perla, selvaggia e parzialmente incontaminata, dell’arcipelago toscano. L’isola di Capraia, situata a circa 40 miglia da Livorno,  non è fatta sicuramente per il turismo di massa che anzi è bene stia alla larga e continui ad esibire lonze e carni al vento  altrove :  montuosa e rocciosa, vuole essere scoperta e gustata a prezzo di dure e lunghe camminate,  anche per cercare  una caletta (raggiungibili altrimenti via mare)  per fare in bagno in acque dove ancora ci si può specchiare e soprattutto, con l’ausilio di una semplice maschera , vedere il bellissimo spettacolo della flora e della fauna marina: pesci e pesciolini d’ogni tipo e ogni tanto anche qualche indisponente e urticante medusa. Oppure arrampicarsi su sentieri ben tracciati in mezzo a cespugli odorosi di erica, corbezzolo e lentisco.

Oggi l’isola è facilmente raggiungibile con collegamenti di linea, ma in un opuscolo del 1940 si legge:

“Lo sbarco facile d’estate, quando il mare è calmo, riesce invece difficile quando il mare è mosso ed addirittura impossibile quando soffia il grecale che impedisce l’uscita delle barche che vanno ad incontrare il piroscafo al largo.”

Altri tempi, eppure nemmeno poi tanti remoti: oggi la nave attracca comodamente al porto, nella parte bassa del paese. L’isola non è  molto popolata: in inverno si parla di una media di trecento abitanti, i “capraiesi” doc, mentre d’estate si arriva a tremila. Già troppi, perché purtroppo qualche vacanziero cafone  è arrivato sin qui.  E la cialtroneria è sempre la malattia più pericolosa e perniciosa.

Eppure quest’isola, che nel mare intorno a sé  cela relitti anche antichi, vittime probabilmente del grecale e anche di un fondale a tratti pericolosamente roccioso, ha un imponente relitto anche nel suo cuore: la colonia penale agricola, ovvero il carcere. Una storia che per certi aspetti ha dell’incredibile, come molte vicende italiane, e alcuni punti tutt’altro che chiari. Chi ne ha veramente voluto la chiusura e perché? E soprattutto, perché tutti o quasi gli edifici sono stati lasciati cadere nel più assoluto e sconcertante degrado?

Parlando con alcuni capraiesi, è sconcertante apprendere come il carcere venga tutto sommato rimpianto: “ c’era una perfetta integrazione tra noi e il carcere, che era vitale per la nostra economia ed è stato determinante per il nostro progresso “ dichiara un anziano uomo di mare, che preferisce rimanere anonimo. Grazie al carcere abbiamo avuto l’energia elettrica e tante comodità prima sconosciute: ricordo, a metà circa degli anni sessanta, la prima lampadina elettrica – una sola, con un filo che si portava per tutta casa – ma che rappresentò una vera rivoluzione rispetto alle lampade ad acetilene o cose del genere”.

Non solo; ma gli abitanti dell’isola potevano comprare i prodotti del carcere, che era organizzato come colonia agricola, mentre il personale di guardia e amministrativo,  pur non essendo autoctono, abitava a Capraia con la famiglia, integrandosi facilmente e favorendo la vita e l’economia isolane.

La colonia penale di Capraia fu fondata nel 1873: il comune cedeva al ministero degli interni una superficie di 552 ettari, poco  meno di un terzo del totale.  Il contratto prevedeva tra l’altro che in caso di dismissione del carcere il terreno sarebbe dovuto tornare al comune, ma quando nel 1986 si decise di chiuderlo questo non avvenne (tanto per cambiare). Solo di recente, dopo una lunga querelle anche giudiziaria, il comune di Capraia è potuto tornare in possesso delle aree e dei fabbricati, ormai però quasi tutti praticamente inutilizzabili. In compenso, tutta l’area è oggi visitabile ed è una splendida passeggiata, anche se bisogna stare molto attenti a rispettare i divieti di accesso negli edifici, che sono decisamente disastrati. Un passo falso o azzardato potrebbe avere serie conseguenze.

C’è una relazione  del 1940 scritta da un ispettore agricolo alla Direzione Generale degli Istituti di Prevenzione e Pena, che illustra molto bene cosa significava la “colonia penale agricola di  Capraia” per la gente dell’isola:

“ In  questo ambiente svolge la sua attività la Colonia ed ha continui necessari contatti con la popolazione civile. La Centrale infatti e l'alloggio del dirigente sono avulsi dal tenimento, da cui distano 3 km e sorgono in Paese. Gli agenti con famiglia hanno tutti case in fitto nel paese. Molti servizi che funzionano per opera di internati sono usufruiti anche dai locali per mancanza di altra mano d'opera. Così l'unico barbiere è un internato e lo stesso dicasi del calzolaio, fabbro, falegname, fornaio, ecc.

Per tutti i lavori da farsi, sia da muratore che da contadino è richiesta dai privati la mano d'opera internata. Lo spaccio della Colonia, situato in paese serve il personale e relative famiglie come i locali. Mancando ogni risorsa nell'isola, la Colonia che solo produce generi di prima necessità come uova, latte, verdure ecc. non può estraniarsi dal paese che manca di comunicazione giornaliera con continente e dove vecchi e bambini non possono lasciarsi privi di quanto loro abbisogna."[1]

Certamente, la presenza di un istituto carcerario non poteva essere puramente “idilliaca”, ma stando almeno a quanto si dice particolari problemi non ve ne furono mai, anche perché tra l’altro le occasioni di contatto con i detenuti erano minime, se non nulle.  Quanto poi a quest’ultimi, non stavano rinchiusi nelle celle tutto il giorno o quasi, ma vivevano all’aria aperta in un contesto paesaggistico stupendo e soprattutto potevano svolgere un’attività. La colonia  era attivissima e la gamma di prodotti realizzata era molto vasta (frutta, verdure, latte, uova, formaggio, carne etc.).  I detenuti  provvedevano anche alla salatura delle acciughe.

La “centrale” del carcere  era in paese e sorgeva nell’ex convento di Sant’Antonio (XVII secolo):  anche questo edificio, come la Chiesa annessa, versa in stato di grave decadenza e abbandono e sarebbe urgente restaurarli.  Al porto sorgeva invece “la salata”, centro per l’accoglienza e il congedo dei detenuti, ma anche centro per la pesca e la conservazione sotto sale di acciughe e sardine. Questi edifici sono stati restaurati e ospitano oggi la Pro Loco, la guardia costiera e altri uffici.

Ed è proprio dal porto, da dietro la chiesa dell’Assunta, che inizia la salita verso gli edifici del carcere vero e proprio  o “diramazioni”, come venivano chiamate. Una salita abbastanza ardua e faticosa, con robusti tornanti che costringono chi la affronta a piedi  (e ne vale davvero la pena) a non partire in quarta, salvo ritrovarsi spompati sul primo masso disponibile. L’alternativa è un fuoristrada o una macchina robusta ( la strada è asfaltata, ma in cattive condizioni) ma c’è anche qualche folle che l’affronta in bicicletta. Si possono sentire tutti i profumi delle vegetazione dell’isola, e  dopo un po’ di salita si può ammirare lo splendido panorama del porto, delle sue acque chiarissime e dell’antica torre di vedetta …. Sempre che si abbia ancora il fiato per poterlo apprezzare.

Una porta ad arco, che richiama un po’ la Porta Inferi dantesca, immette nell’area del carcere vero e proprio. Ma se non fosse per alcuni edifici con le sbarre, sarebbe davvero difficile pensare che quello era un luogo "punitivo": aree aperte e vasti spazi non danno certo l’idea di reclusione. Se si pensa che la nostra costituzione insiste tanto sulla  funzione “rieducativa” della pena, la chiusura di un posto come Capraia appare quanto mai incomprensibile

L’Aghiale è il primo nucleo o diramazione dell’ex carcere immerso in mezzo ai pini e alla vegetazione: nella piazzetta c’erano le celle, gli alloggi delle guardie, la mensa ed al barbiere. Subito sopra, una piccola cappella, l’orto del direttore con uno strano edificio (anche’esso ormai fatiscente) chiamato il Castelletto, di cui nessuno più conosce l’origine e la funzione: ricorda per l’appunto un castello merlato in miniatura, in uno stile vagamente liberty.  A meno di incontrare qualche altro viandante, tra gli edifici diroccati regnano il silenzio e la desolazione, malgrado la grande bellezza dello sfondo paesaggistico. Non è difficile chiudere gli occhi e immaginare la vita e l’attività che ferveva in quei luoghi, forse non proprio “ameni” ma sicuramente molto meno “infernali” di tanti altri posti simili: e del resto, il carcere, ad onta del buonismo imperante, è o dovrebbe essere un luogo di espiazione e rieducazione, non di villeggiatura. Fa tristezza vedere le bellissime “terrazze”  che scalano il fianco della collina, un tempo ricche di coltivazioni e anch’esse oggi quasi del tutto abbandonate: “ vaste e belle piazzole coltivate a viti o a cereali sono negli immediati pressi dei fabbricati. Piazzole poi di ogni tipo salgono su pei monti fino a notevole altezza, coltivate per lo più a vigneto”. Così la vecchia relazione del 1940, che continua poi:

“E’ questa la maggiore tra le diramazioni, ricca di numerosi piccoli fabbricati. Ai dormitori ed uffici, si aggregano in diverso livello l’apiario, il porcile, una cappelletta adibita a fienile, l’ufficio dell’agronomo ed altre piccole costruzioni”.  Uno scenario ormai del tutto scomparso ma che non è difficile  immaginare.

 

 Subito dopo l’Aghiale, una chiesetta ormai totalmente diroccata.  In seguito, la salita diventa più dolce e il panorama sempre più mozzafiato; proseguendo si incontrano i pollai (diramazione di Pratovecchio),  piccole casette che hanno visto l’allevamento di migliaia di polli. Oggi quell’area è sede di un agriturismo, per cui si presenta assai meno disastrata del resto.  Dopo l’enorme “vascone degli orti grandi” che veniva utilizzato per l’irrigazione dei coltivi (oggi abbandonato, ma l’acqua piovana continua a riempirlo) si giunge all’ovile, penultima diramazione che comprende vari edifici, tra cui alloggi delle guardie e una colonica riadattata a carcere.  “A quota 249 trovasi la diramazione ovile ove hanno sede 9 internati e 48 reclusi. Qui esistono oltre altri piccoli locali ad uso uffici, il dormitorio, una vasta vaccheria capace di una quarantina di capi, nonché l’ovile propriamente detto per il gregge della colonia”, continua la relazione.  Anche qui la desolazione regna sovrana, ma almeno una nota positiva c’è:  la capre sono tornate e l’ovile è stato riaperto. La produzione di formaggi caprini era uno dei punti di forza dell’economia dell’isola, gestito non solo dal carcere ma anche dai capraiesi,  ma nel 2010 anche l’ultima azienda aveva cessato la produzione. Grazie al progetto dell’azienda agricola il Saracello srl, costituitasi sull’isola e accolta con gioia da tutti, lo scorso tre maggio 31 caprette hanno “arrembato” l’isola che porta il loro nome, prima fase di un progetto che prevede il ripopolamento e la ripresa della produzione di latte e formaggio.

L’itinerario nella splendida vegetazione e nel paesaggio d’incanto si conclude alla Mortola, ultima diramazione dell’ex colonia penale.  Un percorso che lascia stupiti e pone diversi interrogativi. Sulla motivazione della chiusura del carcere sono state date diverse risposte: inadeguatezza e superamento del modello, volontà di aprirsi al turismo e quindi inconciliabilità della struttura carceraria, malumori della popolazione locale.  Nessuna di  queste convince però del tutto e c’è chi nell’isola racconta una storia diversa. Si parla di “qualcuno” che in alto loco aveva messo gli occhi sugli edifici e sul complesso della colonia penale, sperando di poterne trarre una ricca speculazione.  Non ci sarebbe certo da stupirsene. Ma quello che lascia invece sbigottiti è il fatto che un simile patrimonio di edifici e coltivazioni sia stato lasciato andare in rovina, in molti casi ormai irreversibilmente. Certo il comune cerca di fare qualcosa, di ricuperare il recuperabile e qualche azienda o agriturismo ha cominciato a prendere piede. Ma il cammino è ancora lungo e molti fabbricati anche pregevoli sono ormai irrecuperabili. Una delle tante, troppe storie incomprensibili e vergognose.

 

 



[1] http://news.isoladicapraia.it/images/stories/capraia/storia/carcere1940/colonia_penale_1940.pdf  . Tutte le citazioni (compresa quella precedente) provengono da questa fonte.           

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    19 commenti per questo articolo

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    Ben detto, perfettamente d'accordo! credo che anche il padre Dante approverebbe.

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    Sarebbe il caso di dire, con Dante: "muovasi la Capraia e la Gorgona". Solo che, anziché far "siepe ad Arno in su la foce", dovrebbero farla al Tevere.

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