Giovanni F. Accolla, Franco Cardini, Domenico Del Nero, Giordano Bruno Guerri, Gennaro Malgieri, Gennaro Sangiuliano, Mirella Serri, Marcello Veneziani.
Palazzo Pitti: arriva “ L’uomo ragno” e dirige Beethoven: un trionfo.
Stefano Montanari si presenta sul podio con una tenuta quantomeno originale. Ma la sua bacchetta scatena l'entusiasmo generale. Un grande.
di Domenico Del Nero
Il maestro Stefano Montanari (foto Michele Borzoni)
Nuovo appuntamento con la musica sinfonica ieri sera
(giovedì 21 luglio) a Palazzo Pitti,
nella stagione estiva dell’Opera di Firenze. Un itinerario particolare quello
offerto stasera nel cortile dell’Ammannati: Brahms, Weber e Beethoven. Sul
podio il maestro Stefano Montanari, violinista e direttore d’orchestra. Come
solista Montanari è uno dei più esperti conoscitori della musica del Seicento e
del Settecento: dal 1995 al 2012 è stato primo violino concertatore
dell'Accademia Bizantina di Ravenna, ensemble specializzato in musica antica,
con cui effettua tournée in tutto il mondo.
Come direttore d’orchestra , oltre al repertorio sinfonico barocco e
classico, ha diretto opere dello stesso periodo ma anche Mozart, Rossini,
Donizetti. Un musicista di grande cultura e davvero di ampie vedute: è un appassionato del rock, gli piacciono in particolare i Led Zeppelin e i Pink
Floyd e anche la musica .. dei motori,
ovvero la Ducati e la Ferrari, MotoGP e
Formula 1. Forse per questo la mise con cui si presenta sul podio è quantomeno
sconcertante: giaccia sfrangiata, pantaloni in pelle, stivaletto “carrarmato” e
soprattutto una improbabilissima e inquietante maglietta tigrata a strisce
bianche e nere. Un incrocio tra Indiana
Jones e l’Uomo Ragno, ma quando afferra la bacchetta la mise passa subito in secondo piano: il suo gesto e il suo modo di
dirigere ricordano Muti, dice qualcuno tra il pubblico: scusate se è poco! Per il concerto di Weber suona come solista
Raffaele Giannotti, classe 1995: diplomatosi a soli 15 anni e premiato in vari
concorsi internazionali, è dal 2014
primo fagotto dell’Orchestra del
Maggio Musicale Fiorentino. Veramente un giovane fenomeno che ha
incantato la platea. Lo stesso l’orchestra del Maggio naturalmente, che sotto
quella bacchetta un po’ originale si lascia sedurre e dà il meglio di sé. Ma
questa non è una novità.
Primo autore in programma Johannes Brahms, con le Variazioni in si bemolle maggiore per orchestra, op. 56a su un tema
dal Chorale S. Antonii della
Feldparthie n. 6, Hob:II:46 di Franz Joseph Haydn. Un titolo davvero complesso per un brano dalla
genealogia abbastanza complicata. Composte nel 1873, queste Variazioni sono una sorta di “prova
generale” della prima sinfonia che sarà eseguita tre anni più tardi: anche grazie ad esse il compositore riuscì a
vincere il timore “reverenziale” che il musicista nutriva verso il genere
sinfonico e proprio nella loro partitura troviamo due elementi destinati a diventare
topici nel sinfonismo brahmsiano: l’atteggiamento “storicistico” e la tecnica
della variazione. Brahms fu infatti uno dei primi a studiare con grande
attenzione la musica del passato, compresa quella rinascimentale e barocca, con
autori come Palestrina, Orlando di Lasso, Heinrich Schütz, la cui scrittura
polifonica si può ritrovare in certi punti dell’opera corale di Brahms; autori
le cui tecniche compositive erano certo del tutto desuete, ma a cui il
musicista tedesco guarda con l’occhio di chi intende “rigenerarle” per
impiegarle in un contesto del tutto diverso da quello originale. Brahms riprende dunque un tema di una
composizione attribuita ad Haydn che a sua volta risaliva ad un antico canto
processionale austriaco, il "Chorale in honorem St. Antonii". E
proprio da questo tema “antico” e popolare il musicista partì per sviluppare la
propria tecnica delle variazioni orchestrali. L’esecuzione all’aperto fa
perdere alcune sfumature di questa composizione elegante e raffinata, ma
direttore e orchestra danno subito prova di un buon affiatamento con una
esecuzione nitida e precisa, brillante nelle sfumature e calda nei toni e nella
resa degli impasti strumentali. Molto animata e grandiosa la resa della passacaglia
finale, nella quale riemerge il tema iniziale della Corale.
Carl Maria von Weber (1786-1826) è
noto soprattutto come compositore d’opere e il suo Freischütz il primo, importante melodramma (nella forma
del Singspiel ) del romanticismo tedesco; ma è autore anche di varie
composizioni sinfoniche, meno conosciute rispetto al teatro ma comunque almeno
in parte degne di nota. Il concerto in
fa maggiore per fagotto e orchestra, op. 75 (1811) si può senz’altro
considerare come un esempio delle straordinarie capacità di orchestrazione del
suo autore, senz’altro una prova di grande impegno per il solista. E’
articolato in tre tempi, nel rispetto assoluto della forma classica: un allegro
ma non troppo, aperto da una introduzione orchestrale in cui sono contenuti
i due temi del primo tempo: spigliato e dal ritmo “puntato” il primo, cantabile
e dal largo fraseggio espressivo il secondo.
L’Adagio (secondo tempo) è
costituito da un dolce canto del fagotto, sostenuto dalle morbide armonie degli
archi, con qualche raro ma deciso intervento orchestrale; mentre il rondòfinale offre allo strumento solista
tutte le possibilità di sfoggiare il proprio virtuosismo. Il dialogo tra l’orchestra
e il giovane solista è perfetto, con qualche ammiccante complicità: Montanari
offre al giovane solista lo sfondo su cui far brillare le proprie capacità
virtuosistiche, con uno strumento non certo usuale in quel ruolo. Un giovane,
Raffaele Giannotti, di cui l’orchestra del Maggio può giustamente essere fiera
e che farà parlare di sé. Al termine della prima parte, i tre fagotti e il controfagotto si sono
esibiti in un gustosissimo bis dal sapore jazzistico.
La seconda parte del concerto era
occupata da una delle composizioni più celebri del repertorio sinfonico, per
certi aspetti la sinfonia per eccellenza: la sinfonia n.5 in do minore op. 67, ovvero la quinta di Beethoven. Difficile, ma sicuramente per certi aspetti
anche superfluo, tentare una descrizione anche sommaria della sinfonia “del
destino”, con la più celebre successione di quattro note di tutta la storia
della musica a evocare, nel primo movimento, lo scontro tra luce e tenebra, umanità e cieca furia del destino. La quinta
sinfonia fu eseguita per la prima volta nel dicembre del 1808, ma i primi
abbozzi risalgono al 1804. Un Beethoven senz’altro “titanico” ma anche più
asciutto e meno enfatico rispetto alla sua terza sinfonia, L’Eroica. L’inciso
del destino, le famose quattro note nel primo movimento ( Allegro con brio) sono il fondamento del primo tema, che percorre
tutta quanta la sinfonia rendendola più solida ed unitaria; un secondo tema
cantabile fa solo poche, timide apparizioni.
Pacata invece l’atmosfera del secondo movimento, anche se animata dall’irrompere
improvviso di fanfare di ottoni (andante con moto),
mentre nel terzo (scherzo), a un cupo tema ascendente dei bassi segue il
ritorno di quello del destino, creando un atmosfera profondamente drammatica.
Il quarto e ultimo movimento (allegro), con una sfolgorante tonalità in
do maggiore segna invece la vittoria
dell’intelletto e della ragione.
La lettura di Montanari e dell’orchestra del Maggio
è stata veramente “dionisiaca”: lo
spirito della sinfonia, eroico, dolente,
maestoso e grandioso è stato perfettamente evocato grazie alla
compattezza degli archi, ai tempi perfettamente calibrati, alla straordinaria
forza e alla sintonia di tutte le famiglie strumentali. Un silenzio assoluto
dalle note iniziali fino alla conclusione, accolta – giustamente – da un
silenzio fragoroso. Lo spirito germanico
ha aleggiato davvero sulla reggia dei Medici e dei Lorena e con lui l’anima
vera e autentica dell’Europa. Grazie maestro, grazie orchestra del Maggio.