Opera di Firenze, spettacoli a Palazzo Pitti

Violetta, da Parigi a Cinecittà. L'eroina verdiana come diva del cinema.

Il regista Alfredo Corno mette in scena una versione molto particolare di una delle opere più note ed amate.

di Domenico Del Nero

Violetta, da Parigi a Cinecittà. L'eroina verdiana come diva del cinema.

“Verdi ha dato a La Dame aux camélias lo stile, che le mancava nel dramma di Dumas”. Parola di Proust (nientemeno) e sicuramente il personaggio verdiano ha una carica umana molto superiore al modello, che tra l’altro si ispirava a un personaggio realmente esistito. L’edizione in scena in questi giorni all’opera di Firenze, nella cornice suggestiva del cortile dell’Ammannati (palazzo Pitti) sfoggia uno stile molto particolare,che si può senza ombra di dubbio chiamare cinematografico. Con una ispirazione tra Pirandello  (quello del romanzo  i quaderni di Serafino Gubbio operatore) e Fellini, di cui viene esplicitamente richiamata  La dolce vita, la scena si sposta dalla  Parigi ipocrita e gaudente del grasso usurpatore Luigi Filippo a una Roma anni cinquanta del secolo successivo, con focus su Cinecittà. Potrebbe sembrare una delle solite operazioni molto, molto discutibili se non fosse che il regista Alfredo Corno ha avuto l’idea di strutturarla come una “ripresa cinematografica”: il primo atto è infatti ambeintato in un un set di Cinecittà. Violetta è la primadonna e la finzione cinematografica si intreccia alla storia principale: il  celebre brindisi è infatti una ripresa con tanto di ciak, mentre la festa di Flora si riduce (perdendo però di fascino) in una pausa con tanto di cesto della colazione, colma di comparse di ogni genere; in compenso Violetta vestita come Anita Ekberg nella Dolce vita , canta  Sempre libera nella vasca della  Fontana di Trevi.  La finzione viene messa da parte nel secondo atto, che è una casa di campagna di Violetta con tanto di televisore, mentre il terzo è una variopinta “festa del cinema” con comparse di ogni genere (fin troppo, forse)  e con altre citazioni felliniane. L’ultimo atto, invece, si svolge nella cornice squallida è un po’ riduttiva di una infermeria.

Una lettura suggestiva, che ha una sua logica e condotta con intelligenza, grazie anche alla bellezza e alla fantasia dei costumi (notevoli soprattutto quelli della festa del terzo atto), curati dallo stesso regista e dallo scenografo Angelo Sala. Convince? Questione di gusto, probabilmente. Al pubblico è piaciuto, ma sinceramente lascia forse l’impressione di qualcosa di falso e a tratti un po’ forzato. Si può senz’altro concordare che il personaggio di Violetta sia un “tipo eterno” e che la cornice della Roma – Cinecittà anni cinquanta (del Novecento) non sia certo assurda; ma così Violetta finisce per essere sinceramente più simile a ... Marylin Monroe che al personaggio di Dumas figlio che tanto aveva impressionato Verdi. Inoltre non mancano certo forzature e incongruenze ( i riferimenti ai viaggi a Parigi perdono quasi completamente di significato);  comunque si è visto sicuramente di peggio e lo spettacolo ha  infine una sua coerenza e una sua dignità.

Per quanto riguarda il cast vocale, nel complesso risulta inferiore a quello delle altre due opere in programma, l’Elisir d’amore e il Barbiere di Siviglia. Francesca Dotto è una Violetta sicuramente efficace e credibile dal punto di vista scenico, sia nel ruolo di fascinosa (e un po’volgarotta) attrice che in quello di amante dolente e appassionata. Sul piano vocale quello di Violetta è un ruolo molto difficile: richiede infatti una voce  agile d con virtuosismi di tipo “belcantistico” nel primo atto, in cui appare come una donna frivola e leggera (Verdi stesso la definiva senza mezzi termini una prostituta), intensa e drammatica nel secondo, con l’apice in quel bellissimo e straziante amami Alfredo, mentre la terzo assume il ruolo del soprano drammatico. La  Dotto ha una voce gradevole ma non sempre adeguata,  un po’ carente anche nelle  colorature, soprattutto nel primo atto. Gli acuti ci sono, ma a volte sin troppo “gridati”, mentre la dizione non è sempre impeccabile.

Dizione chiara e bel timbro vocale caratterizzano l’Alfredo Germont di Matteo Lippi, il fraseggio nel complesso curato  e anche se la voce non è particolarmente potente  la prova è sostanzialmente positiva e senza sbavature.  Robusta e sicura, ma poco articolata e pressoché priva di sfumatura la voce di Simone del Savio nel ruolo – sicuramente sgradevole – di Giorgio Germont, risolto poco felicemente anche sul piano scenico.

Il coro del Maggio Musicale ha cantato – e recitato – con l’altissimo livello artistico e professionale che lo contraddistingue, prestandosi benissimo a una regia certo non facile e non usuale. Buona anche la direzione di Fabrizio Maria Carminati, che alterna momenti e toni dolorosi e struggenti ad altri frenetici ma sempre poco gioiosi, nel complesso cupi e funerei: una interpretazione convincente e suggestiva, che cerca di evitare o smorzare  il più possibile i momenti "bandistici",  supportata da una orchestra in piena forma. Applausi pieni e senza riserve, nel complesso senz’altro da vedere.


Prossime repliche (alcune con secondo cast): 

Lun 11 luglio, ore 21:15
Mar 12 luglio, ore 21:15
Sab 16 luglio, ore 21:15
Lun 18 luglio, ore 21:15
Ven 22 luglio, ore 21:15
Sab 23 luglio, ore 21:15
Lun 25 luglio, ore 21:15

 

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