Comitato direttivo
Giovanni F. Accolla, Franco Cardini, Domenico Del Nero, Giordano Bruno Guerri, Gennaro Malgieri, Gennaro Sangiuliano, Mirella Serri, Marcello Veneziani.
‘Orso d’oro’ a Berlino, coprodotto dalla Rai (che in certe sue iniziative è davvero la più grande industria culturale del paese), ‘Cesare deve morire’ dei fratelli Taviani è un film alto e raro, commosso e pieno di empatia, ma anche difficile. I protagonisti sono detenuti a Rebibbia ed è inevitabile la diffidenza nei loro confronti (e nei confronti del film) da parte di un paese che non vede quasi mai i potenti giudicati e puniti come gli altri, che ha paura della violenza, della criminalità diffusa e delle mafie: convinto che tre quarti dei delinquenti siano fuori, che non esista certezza della pena e che le carceri non bastino mai, si sente periodicamente dire che bisogna trovare un modo per svuotare i penitenziari sovraffollati . Ecco perché il film è difficile. E, insieme, carico di un’umanità profonda, che non ha nulla a che vedere con le forme obsolete di solidarietà buonista e di facciata: qui si mette in moto qualcosa di profondo, che supera gli schieramenti, le paure e il giusto risentimento.
La locandina del film
Alcuni detenuti sono condannati all’ergastolo, altri per associazione criminale, ci sono assassini riconosciuti e gente, nel braccio più pericoloso di Rebibbia, che uscirà chissà quando. I loro accenti, napoletani, siciliani, meridionali, ci inducono ai peggiori pregiudizi. A loro viene chiesto di preparare e mettere in scena il ‘Giulio Cesare’ di Shakespeare, una delle più grandi tragedie sul potere, il suo abuso, la violenza, l’onore, l’amicizia, il tradimento, la fedeltà: a coloro che , nell’ignoranza e sulla base di tradizionali pseudovalori diventati il loro opposto, sono finiti dentro per aver gestito il contropotere, l’illegalità, il sopruso, l’ antistato che da troppo tempo siamo costretti a subire, tra lutti ingiusti, furti di economia, sottosviluppo di intere regioni.
Proprio qui sta la drammatica magia del film: mentre Casca, Bruto, Cassio e gli altri ‘regicidi’ da una parte, Antonio e Ottaviano dall’altra, esponenti della camorra, di Cosa nostra, spacciatori, criminali, si ritrovano a interpretare dubbi e inquietudini molto più grandi di loro, a invocare il rispetto per l’amico difensore della patria o il giusto desiderio di giustizia per chi abusa del potere, mentre tutti i detenuti di Rebibbia, affacciandosi dalle inferriate delle loro finestre, urlano in coro – dopo la battaglia di Filippi - il loro diritto alla libertà’, qualcosa succede e ci coinvolge nel profondo.
Noi spettatori, ci rendiamo conto amareggiati del drammatico paradosso cui stiamo assistendo, di come l’universale, l’eterno possa raggiungere – forse per la prima volta – chi dalla vita – quella vera - ha avuto la disgrazia di indossare altri panni, di pronunciare parole simili con significati ben diversi, di distruggere con le proprie vittime se stessi. Loro, come mai prima, intuiscono che il loro linguaggio, non molto diverso in apparenza da quello che interpretano, è tutt’altra cosa, miserabile e vuoto, giaculatoria priva di senso, pronunciata fino ad allora con animo rapace, primitivo.
E, tragedia nella tragedia – mentre noi li guardiamo e soffriamo, come un moderno coro - per la prima volta capiscono, si rendono conto, si appassionano alla trama, si identificano incredibilmente con i personaggi, avvertono che – persino per loro, senza futuro - si è aperto uno spiraglio di libertà. Anche se, concretamente, ormai è troppo tardi. ‘
Da quando ho scoperto l’arte’, è l’ultima battuta di un detenuto-attore, ‘questa cella è diventata la mia prigione’. ‘Noi siamo qui, a ritirare l’Orso d’oro’, hanno detto i fratelli Taviani a Berlino ‘ e non riusciamo a non pensare ai nostri attori, rimasti chiusi in cella, a Rebibbia’. Forse, però, lo squarcio magico che solo la più sapiente delle culture sa provocare, qualche frutto concreto è riuscito ugualmente a produrlo: due degli interpreti, ci informano le didascalie finali, sono diventati scrittori, uno – ormai fuori – fa l’ attore.
Tutti gli altri sono dov’erano prima di cominciare a recitare: in carcere, a scontare le loro colpe, com’è tragicamente giusto che sia, anche se ora – forse per la prima volta – sanno davvero cosa significhi non essere liberi.