Al cinema con Michele

«Cesare deve morire», Orso d'oro a Berlino

I fratelli Taviani e i detenuti di Rebibbia

di Michele  Cucuzza

«Cesare deve morire», Orso d'oro a Berlino

‘Orso d’oro’ a Berlino, coprodotto dalla Rai (che in certe sue iniziative è davvero la più grande industria culturale del paese), ‘Cesare deve morire’ dei fratelli Taviani è un film alto e raro, commosso e pieno di empatia,  ma anche difficile. I protagonisti sono detenuti a Rebibbia ed è inevitabile la diffidenza nei loro confronti (e nei confronti del  film) da parte di un paese che non vede quasi  mai i potenti giudicati e puniti come gli altri, che ha paura della violenza, della criminalità diffusa e delle mafie: convinto che tre quarti dei delinquenti siano  fuori, che non esista certezza della pena e che le carceri non bastino mai, si sente  periodicamente  dire che bisogna trovare un modo per svuotare i penitenziari sovraffollati . Ecco perché il film è difficile. E, insieme, carico di un’umanità profonda, che non ha nulla a che vedere con le  forme obsolete  di  solidarietà  buonista e di facciata: qui si mette in moto qualcosa di profondo, che supera gli schieramenti, le paure e  il giusto risentimento.

 La locandina del film

Alcuni detenuti sono condannati all’ergastolo, altri per associazione criminale, ci sono assassini riconosciuti e gente, nel braccio più pericoloso di Rebibbia, che uscirà chissà quando. I loro accenti, napoletani, siciliani, meridionali, ci inducono ai peggiori pregiudizi. A loro viene chiesto di preparare e mettere in scena il ‘Giulio Cesare’ di Shakespeare, una delle più grandi tragedie sul potere, il suo abuso, la violenza, l’onore, l’amicizia, il tradimento, la fedeltà:  a coloro che , nell’ignoranza e sulla  base di tradizionali pseudovalori  diventati il loro opposto,  sono finiti dentro  per aver gestito  il  contropotere, l’illegalità, il sopruso, l’ antistato che da troppo tempo siamo costretti  a subire, tra lutti ingiusti, furti di economia, sottosviluppo di intere regioni.

Proprio qui sta la drammatica magia del film: mentre Casca, Bruto, Cassio e gli altri ‘regicidi’  da una parte, Antonio e Ottaviano  dall’altra, esponenti della camorra, di Cosa nostra,  spacciatori, criminali, si ritrovano a  interpretare dubbi  e  inquietudini molto più grandi  di loro,  a invocare il rispetto per  l’amico difensore della patria  o  il giusto desiderio di giustizia per chi abusa del potere, mentre tutti i detenuti di Rebibbia, affacciandosi dalle inferriate delle loro finestre,  urlano  in coro – dopo  la battaglia di Filippi -  il loro diritto alla  libertà’, qualcosa succede e ci coinvolge nel profondo.

Noi spettatori, ci rendiamo conto amareggiati del drammatico paradosso cui stiamo assistendo,  di  come l’universale, l’eterno possa raggiungere – forse per la prima  volta –  chi dalla vita – quella vera -  ha avuto la disgrazia di indossare  altri panni, di pronunciare parole simili con significati ben diversi, di distruggere con le proprie vittime se stessi.   Loro, come mai prima, intuiscono che il loro linguaggio, non molto diverso in apparenza da quello che interpretano, è tutt’altra cosa, miserabile e vuoto,  giaculatoria  priva di senso, pronunciata  fino ad allora con animo rapace, primitivo.   

E, tragedia nella tragedia – mentre noi li guardiamo e soffriamo,  come un  moderno coro -  per la prima volta  capiscono, si rendono conto, si appassionano alla trama, si identificano incredibilmente con i personaggi, avvertono che – persino per loro, senza futuro -  si è aperto uno spiraglio di libertà. Anche se, concretamente,  ormai è troppo tardi.  ‘

Da quando ho scoperto l’arte’,  è l’ultima battuta di  un detenuto-attore, ‘questa cella è diventata la mia prigione’. ‘Noi siamo qui, a ritirare l’Orso d’oro’, hanno detto i fratelli Taviani a Berlino ‘ e non riusciamo a  non pensare ai nostri attori, rimasti chiusi in cella, a Rebibbia’. Forse, però, lo squarcio magico che solo la più sapiente delle culture sa provocare, qualche frutto concreto è riuscito ugualmente a produrlo:  due degli interpreti, ci informano le didascalie finali, sono diventati scrittori, uno – ormai fuori –  fa l’ attore.

Tutti gli altri sono  dov’erano prima  di cominciare a recitare:  in carcere, a scontare le loro colpe, com’è tragicamente giusto che sia, anche se ora – forse per la prima volta – sanno davvero cosa significhi non essere liberi.

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