La Civiltà bizantina

Il Cosmo come modello educativo e politico

di Giovanni Sessa

Il Cosmo come modello educativo e politico

L’Accademia italiana, è ben noto, nella maggior parte dei suoi insigni rappresentanti è schierata sulle posizioni dell’intellettualmente corretto. E’ cosa rara poter leggere un lavoro “scientifico” con caratteristiche ed obiettivi culturali altri rispetto a quelli consueti.  Qualche lodevole eccezione è, comunque, presente. Lo abbiamo constatato leggendo lo studio di Giovanni U. Cavallera, Dove Platone riceve il battesimo. La formazione come fondamento nell’Impero romano d’Oriente, da poco nelle librerie per Mimesis Edizioni (per ordini: 02/24861657, euro 20,00). Si tratta del lavoro di un dottore di ricerca in Filosofia dell’educazione, autore di diversi saggi sulla civiltà bizantina  e di altri sul positivismo italiano. Si rassicuri il lettore, non parliamo di un’opera, in senso stretto, di storia della pedagogica. In essa lo studio dell’educazione è mezzo di cui l’autore si avvale per presentare i tratti più significativi della civiltà bizantina.

   Il soggetto del saggio richiede, per esplicita ammissione di Cavallera, un approccio transdisciplinare, in cui la presentazione dell’idea di mondo dei bizantini risulta essenziale. Non è   possibile comprendere cosa mai sia stato il problema educativo a Costantinopoli, quali mai siano stati gli obiettivi che le scuole bizantine perseguivano, senza aver contezza dell’idea di mondo e di uomo che vigeva in quella civiltà. Il libro che presentiamo è di rilievo anche per un’altra ragione. Fin dall’incipit, Cavallera viene ai ferri corti con la vulgata culturale oggi dominante: vale a dire con il tentativo, retaggio della cultura dei Lumi, di smantellare lo studio del passato e della storia, a beneficio di un’innovazione che i chierici del progresso pensano di poter realizzare senza riferimento alcuno alla tradizione. Stiamo assistendo, in questo senso, alla progressiva disarticolazione della società contemporanea dal suo passato e dalle proprie radici. Il saggio che presentiamo va in direzione opposta: la ricostruzione del mondo bizantino è qui connotata da propensione empatica che, anziché inficiarne la scientificità, la esalta, rendendo Bisanzio paradigma a cui guardare ancora oggi

   Cavallera ci sollecita a recuperare un corretto rapporto con il passato, con le culture “altre” rispetto al presente utilitarista e invita il lettore a liberarsi dai “pre-giudizi” moderni nel momento in cui si procede alla esegesi della civiltà romano-orientale. In essa trovarono felice ed armonica sintesi tre diverse eredità: quella dell’Impero romano, il retaggio della Grecia classica ed il messaggio   cristiano. Come recita il titolo del volume, nella Basilica di Santa Sofia, Platone e il mondo classico si conciliarono con il Vangelo. La sintesi si realizzò effettivamente in quanto non vi fu mai la preminenza di una eredità sulle altre. Il tratto più rilevante del mondo bizantino fu di presentarsi come: “…civiltà che seppe…rinnovarsi senza mettere mai in gioco le fondamenta stesse del suo carattere” (p. 11), civiltà del Nuovo Inizio in cui la vita si espresse attraverso forme ereditate ma, al medesimo tempo, rinnovate. Per tale ragione anche il Nuovo Inizio occidentale, l’età rinascimentale, fu propiziata dal lavoro degli eruditi bizantini.

   Simbolo in senso proprio della Roma d’Oriente e dei suoi valori è da considerarsi la Basilica di Santa Sofia. Essa indica il “… legame tra mondo celeste e mondo terreno, che partecipa del primo attraverso la liturgia con la sua simbologia del gesto, la preghiera e l’immagine che è la via attraverso cui il Divino può essere raggiunto partendo dal mondo sensibile” (p. 18). In tale affermazione si evince la visione del mondo, di origine neoplatonica, vigente a Costantinopoli: l’opera d’arte sacra è finestra che squarcia la materialità per farvi irrompere l’invisibile. Essa consente al fedele di avere accesso al Cosmo. Così, la pienezza della vita umana si dà soltanto nel voler effettivamente vivere in “Dio”. Esiste un rapporto sinergico tra il divino e le qualità presenti nell’uomo. In ciò si palesa la differenza essenziale che distingue il cristianesimo bizantino dal mondo classico. A Costantinopoli non si crede più ai ciclici ritmi del cosmo e alle premonizioni celesti. Solo la concessione divina della libertà consente agli uomini la sintonia con il logos. Dio si è fatto carne per consentire all’uomo la via inversa, l’incarnazione ha scopo terapeutico. Le cose sensibili hanno in sé pneumaticamente il sovrasensibile. Anche il monarca è “legge vivente e immagine vivente del Regno dei Cieli:…tutto ciò che lo circonda…deve ricordare questo legame ed è regolato minuziosamente da appositi trattati” (p. 24). Ribellarsi alla sua autorità significa   contrapporsi ad un ordine stabilito dall’Alto. Per Massimo il Confessore il mondo nella sua completezza va inteso come “Chiesa cosmica”.

    La piccola miniatura del Monaco orante, contenuta nella Scala del Paradiso di Giovanni Climaco, esemplifica tale situazione. Il monaco è visto di spalle, in piedi, dopo aver salito tre gradini, con il capo rivolto in alto e le braccia tese in adorazione dell’occhio divino. L’immagine è immersa nell’oro, simbolo di splendore soverchiante. I gradini stanno a significare contemplazione, conoscenza e scienza. Da qui l’orante può rivolgersi alla Verità, uscendo dalla dimensione edipica del tempo, nell’attimo immenso ed improvviso dell’unione con Dio. E’ un consegnarsi, chiosa l’autore, alla Luce divina. Insomma: “L’uomo bizantino si concepiva come parte integrante di un cosmo che, per mostrarsi tale doveva imitare il più possibile il suo archetipo celeste” (p. 55). Ben inteso che a quel mondo era estraneo il sogno perfettista moderno, in quanto il colto e l’inclita avevano coscienza dell’impossibilità di eguagliare quel modello. L’imitazione, in tale contesto storico-culturale, era solo un mezzo per prepararsi al Regno celeste. La storia, posta in attesa del   fine escatologico, si configurava come tempo “della scuola”, tempo della trasmissione dei saperi, della Tradizione.

   Da qui la centralità del momento educativo nel mondo romano-orientale. La scuola costantinopolitana nasceva con il compito peculiare di preparare, anche in termini spirituali, la classe dirigente centrale e periferica dell’Impero. La fondazione di tale istituzione scolastica la si deve a Teodosio II, che le dette il nome di Pandidakterion. Data la sua importanza, i docenti dovevano svolgere la propria attività esclusivamente in essa. In essa si insegnavano Grammatica, Retorica, Filosofia. Più specifica, in quest’ultima disciplina, era la scuola di Apamea in Siria, mentre Libanio ad Antiochia si occupava prevalentemente di testi classici. A Cesarea Marittima in Palestina, invece, si tenevano lezioni di letteratura cristiana ed ebraica. Cavallera presenta al lettore in modo sistematico anche il diffondersi della cultura a Nicea e si occupa della fondazione della  scuola di Magnaura. Una significativa appendice dedicata allo scambio epistolare tra Gregorio IX e Giovanni III Doukas Vatatzes impreziosisce, infine, il volume. 

   Dalla lettura delle pagine di questo giovane studioso si esce arricchiti di una certezza: il futuro è nella Tradizione.

  

 

 

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