Editoriale

Essere cittadini italiani

Il problema dell'accoglienza oltre agli aspetti logistici è segnato dall'aspetto culturale

Giuseppe del Ninno

di Giuseppe del Ninno

entre riecheggiano esplosioni e si contano violenze e morti addebitabili al terrorismo islamico, da Istanbul a Giacarta, da Colonia all’entroterra libico, si ripropone il problema dell’immigrazione nello spazio europeo. E’ vero: in Italia, il dibattito politico dell’ora è incentrato sulla disciplina legislativa delle unioni civili e sulle vicende di Quarto, che a prima vista sono questioni marginali, avulse dal grande discorso pubblico, che in tutto il continente investe le problematiche dei flussi migratori e, più in generale, il confronto fra civiltà.

Eppure, specialmente per quanto attiene le unioni civili – ma poi anche a Quarto sono in ballo i rapporti fra politica, criminalità organizzata, apparato produttivo e pubblica amministrazione, cioè settori cruciali del costume italiano – si discute di modelli di civiltà in evoluzione e, dunque, di confronto, se non di conflitto, fra culture diverse.

Giorni fa, sul Corriere della Sera, Ernesto Galli della Loggia tornava a esprimersi sulle difficoltà dell’integrazione, con particolare riferimento al sistema di valori alla base di un determinato ordinamento giuridico; un intervento, il suo, destinato a suscitare polemiche in quella parte di società – ma sarebbe più corretto dire in quelle ristrette cerchie di intellettuali e politici – che ravvisa nell’immigrazione soprattutto le opportunità e i lati positivi.

Il fatto è che dopo le fasi dell’accoglienza e della graduale integrazione, si profila l’approdo della cittadinanza; e se per la prima, a dispetto delle esortazioni incondizionate e, ahimè, irrealistiche, del Papa, dobbiamo registrare le prime massicce chiusure perfino da parte di paesi tradizionalmente “accoglienti”  come la Gran Bretagna, la Svezia e la Danimarca, e perfino perplessità e incrinature nel fronte, tutto italiano, già compatto nel pretendere l’abolizione del reato di immigrazione clandestina, la seconda, l’integrazione, fa discutere più che mai.

Indubbiamente, il crinale sembra essere stato il capodanno di Colonia (ma non solo), con la militarizzazione delle violenze e delle molestie di massa da parte di immigrati e rifugiati nordafricani: solo allora il fallimento del multiculturalismo, con tutto il suo portato di relativismo, è apparso all’orizzonte di tante “anime belle”. Ma non di tutte. La questione - lo abbiamo accennato in precedenti articoli – ci offre l’opportunità di un’approfondita revisione della nozione di cittadinanza e dei suoi statuti, non solo per i nuovi arrivati, ma anche per noi “nativi”.

Cominciamo col dire che della cittadinanza si può parlare in termini “statici” e “dinamici”: questo vuol dire che da un lato si è cittadini con riferimento all’ordinamento giuridico, e quindi alla Costituzione, alle leggi, ai codici, fattori della convivenza meno suscettibili di mutamenti nel breve periodo; dall’altro, che si è cittadini nel flusso della vita quotidiana e dei costumi in continua evoluzione. Questa seconda declinazione della cittadinanza comprende allora non solo il futuro, con i continui cambiamenti della lingua, dei costumi, delle sensibilità, ma anche il passato, fatto di retaggi materiali e immateriali. Si capisce, da quanto appena detto, che siamo ben al di là della dicotomia “ius soli”/”ius sanguinis”; eppure, nell’agenda del nostro governo figura proprio la modifica dello statuto e delle modalità di accesso alla cittadinanza, nel senso di attribuirla a chiunque nasca sul territorio dello Stato.

Ma cosa vuol dire essere cittadini? Semplicemente usufruire di diritti e ottemperare ad alcuni doveri? Cosa ne facciamo del travaglio plurisecolare di un popolo che si è costruito il suo destino e che ancora oggi si unisce e si divide intorno a date, a movimenti, a valori antichi? Basti pensare a cosa significano, nel nostro quotidiano, ricorrenze come quella della Liberazione e polemiche sulle modalità di realizzazione dell’Unità d’Italia: cosa possono dire, nel profondo, ai cosiddetti “nuovi italiani”, non solo i recenti passaggi fondamentali come il 25 luglio e l’8 settembre, ma anche gli eventi “minori” come l’eccidio di Bronte o l’assedio di Gaeta?

E vogliamo parlare di letteratura? Di musica? Di architettura? Essere cittadini significa tutto questo, significa sentirsi a casa propria non solo dove c’è un lavoro, ma dove si percepisce il respiro dei secoli, l’orma degli antenati, dove si coltivano l’orgoglio del passato e le aspettative di un avvenire comune. Se a tutto questo si aggiungono gli effetti del calo demografico consolidato dei nativi e la continua espansione di quelli che dovrebbero essere non solo ospiti, ma futuri cittadini, il quadro si completa drammaticamente.

In un simile scenario, le guide politiche della Nazione - ahimé, non solo in Italia… - non sembrano avere individuato e perseguire linee programmatiche rassicuranti. Ci limitiamo a due soli comparti vitali e a poche osservazioni sparse: quello delle difese identitarie e quello della tutela della famiglia. Sul primo tema, registriamo, fra l’altro, lo scempio della lingua italiana e l’oblio di quelle greca e latina, dietro la foglia di fico di un insegnamento residuale in scuole afflitte da insegnanti spesso inadeguati e da programmi cervellotici e sotto i colpi di un gergo internazionale egemonizzato dall’inglese in politica, economia, università, cinema, euroburocrazia. Per tacere, sempre in termini di identità, del ruolo pubblico negato alla religione, senza la quale – per limitarci a questo solo aspetto – le nostre città (in Italia e in Europa) sarebbero completamente diverse da quelle che sono.

Quanto alla famiglia, l’ostinata negazione di qualsivoglia effettivo appoggio legislativo (ad esempio, in materia di agevolazioni fiscali denegate) e il parallelo spazio di discussione – e di provvidenze -  aperto nei confronti di nuovi modelli di convivenza non lasciano davvero ben sperare. Ci salveranno i “nuovi italiani”? Il Presidente Mattarella, nel suo discorso di fine anno, e con lui tanti della nomenclatura sono fiduciosi; noi vorremmo che, prima di fornire accessi, risorse e strumenti educativi ai nuovi arrivati e alle seconde generazioni di immigrati, la Patria si preoccupasse dell’educazione dei suoi figli originari, salvaguardando i valori che fino ad oggi hanno plasmato generazioni di Italiani e di Europei.

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