Le prime 49 pagine contengono il contributo di Mola

I capi dello Stato dagli albori della Repubblica ai nostri giorni. Saggio di apertura sul periodo regio

di Vincenzo Pacifici

I capi dello Stato dagli albori della Repubblica ai nostri giorni. Saggio di apertura sul periodo regio

La copertina del libro

   Il volume di Tito Lucrezio Rizzo, I capi dello Stato dagli albori della Repubblica ai nostri giorni. Saggio di apertura sul periodo regio di Aldo A. Mola, Roma, Gangemi, ed. 2015, va detto, in anticipo e non come presentazione, è ben scritto, riccamente documentato anche son mancano passaggi enfatici ed aulici.

   Le prime 49 pagine contengono il contributo di Mola, il quale, nella introduzione, non si lascia sfuggire l’occasione per segnalare pagine salienti, anche attuali, della vita pubblica. Mola riguarda negativamente l’abolizione della forma “rigida” di Costituzione, provocata dall’introduzione dei ”premi di maggioranza”, ora nell’Italicum esasperati e strumentalizzati. Ricorda con nostalgia il monito, troppe volte disatteso, di Vittorio Zincone, che sognava un presidente “confessore più che predicatore”. Il capitolo, intitolato significativamente ”Parola di Re Costituzionale”, è ripercorso con devozione e fede schiettamente e inalterabilmente monarchiche senza mai cadere nell’enfasi e nella mitizzazione. Ad esempio definisce la “crisi di fine secolo” ”un turbinio che non giovò ad individuare e attuare le riforme di cui il Paese aveva bisogno” e  raccoglie, approvandoli, i messaggi inviati in 37 anni da Umberto II, nell’impegno per la Patria, mai disgiunto dalla monarchia costituzionale.

   I primi due presidenti  della Repubblica – per inaugurare le pagine dovute da Rizzo – il provvisorio Enrico De Nicola e l’eletto Luigi Einaudi, per la loro formazione  risorgimentale, il loro senso  dello Stato, la loro limpida e disinteressata devozione per le istituzioni, meritano ex aequo il posto di eccellenza tra tutti coloro che dal 28 giugno 1946 ad oggi hanno operato nel palazzo del Quirinale.

   Già con Einaudi si manifestano i primi sintomi dell’ ingerenza  dei partiti nelle competenze presidenziali, intrusioni destinata a diventare patologiche e croniche dal settennato di Gronchi, con momenti drammatici e sconvolgenti, mai del tutto chiariti alla pubblica opinione, quali quelli del malore di Antonio Segni il 7 giugno 1964, e con manovre invadenti  dei servizi segreti, guidati da  qualche Belzebù, per il quale il portone del Quirinale fu sempre inesorabilmente serrato.

   Uno spazio, Un gigante di passaggio al Quirinale , è  dedicato da Rizzo a Cesare Merzagora, presidente supplente, quale presidente del Senato, per 4 mesi in seguito alla malattia di Segni, assai di frequente in aperta conflittualità con le figure politiche  eminenti. Due ammonimenti sono efficaci prove della sua ostilità severamente contestatrice della partitocrazia: nel 1987 manifesta l’auspicio di una ripulitura dei partiti politici dalle sudicerie amministrative e più tardi riprova la straripante “ bustocrazia”.

   Sopravvalutato come altri (Pertini e Scalfaro solo apparentemente bonari) dalla pubblicistica, è indubbiamente Saragat, sul quale grava la responsabilità di essere stato, in ogni fase, il “padre padrone” di un partito grigio e clientelare, tra i più incolori dell’Italia repubblicana. A merito del politico piemontese va ascritta la denunzia dell’irresponsabile atteggiamento dei cittadini, evidentemente diseducati, dediti ai consumi meramente voluttuari.

   Sfortunato è il periodo di Giovanni Leone, prestigiosa figura del mondo forense – come segnala Rizzo – “isolato dal suo stesso partito e sacrificato all’insegna della c.d. “solidarietà nazionale” con il Pci”,  tema su cui sarebbe ora fosse dedicata attenzione critica e non nostalgica.

   Intemperante quanto pungente è la presidenza di Francesco Cossiga, svoltasi negli anni in cui seria ed inquietante si palesa la crisi dei partiti e delle istituzioni, culminata nel sequestro Moro, la pagina più  infausta e misteriosa dell’intero periodo repubblicano.  Del sardo va conservato il giudizio calzante ed attuale sull’Europa, che “nel suo non esserci, continua ad allungarsi a dismisura, inglobando tutto e il contrario di tutto”.

   Sovrastimati all’eccesso sonio i due ultimi “inquilini” del palazzo presidenziale. Il primo, Ciampi, al di là dell’orgoglioso amor patrio, manifestato con insistenza, con pari ostinazione rivendica una visione europeistica legata alla lezione liberal -azionista del “manifesto di Ventotene” , opportunamente criticata, tempo addietro, da Galli della Loggia. 

   Il toscano è accomunato al successore napoletano da una puntigliosità ostinata e preconcetta nei confronti di Berlusconi, personaggio da par suo quanto mai criticabile, soprattutto e principalmente perché eletto alla guida di esecutivi, sostenuti da un ampio consenso popolare, contrario alla sinistra.

   Di Napolitano vanno ripresi la denunzia del qualunquismo dell’antipolitica e il rilancio del ruolo insostituibile  dei partiti con l’apporto “finora largamente mancato della cultura, dell’informazione, della scuola”. E’ una sollecitazione contraddetta dalla spinta, dall’avallo e dal consenso prestati ad un governo, solito operare con i voti di fiducia e con le riscritture arbitrarie, extraparlamentari ed impolitiche dei testi unici e delle leggi deleghe.

                                                                            

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