Elogio del coraggio

L’ultimo numero degli Annali di Eumeswil

di Giovanni Sessa

L’ultimo numero degli Annali di Eumeswil

La copertina delo libro

Il coraggio, ben lo si sa, nella nostra epoca è la virtù più negletta. Nel mondo in cui trionfa la ricerca del comfort ad ogni costo e nel quale la simulazione della vita ha conseguito livelli impensabili, l’eroe, l’uomo in costante tensione erotica, è l’immagine di un mondo Altro rispetto a quello della mercificazione universale. Eppure, proprio del coraggio intellettuale, esistenziale e politico, avremmo quanto mai bisogno! A rammemorare senso e significato del coraggio, sovviene l’ultimo numero de Gli Annali di Eumeswil, pubblicazione fiorentina dell’Associazione Eumeswil editrice, che all’antica virtù dedica un suo numero monografico di spessore (per ordini: 055/6550207, eumeswil@dada.it, euro 15,00).

   In copertina, al fine di introdurre il lettore alle argomentazioni del testo, compare l’elmetto forato che Ernst Jünger indossava durante uno degli scontri più cruenti cui partecipò durante la Prima guerra mondiale. L’episodio è ricordato dal narratore tedesco in Tempeste d’acciaio ed è riprodotto in una delle sezioni che compongono questi Annali. Si tratta del racconto di un’azione al fronte guidata dallo scrittore lungo il cosiddetto Sentiero del Dragone, ubicato nei pressi della città di Combrai. Al termine dello scontro a fuoco, gli uomini di Jünger fecero prigionieri oltre duecento inglesi, sottraendo loro un’ingente quantità di armi e vettovagliamenti. La descrizione del combattimento è realistica, oggettiva, drammatica. Lo scrittore dice crudamente di un commilitone colpito alla testa “benché la materia cerebrale gli colasse sul viso fino al mento, era ancora cosciente quando lo portammo al più vicino rifugio” (p. 156), ma poco dopo, nella concitazione degli eventi, egli stesso venne colpito al cranio e il suo elmetto forato da colpi di mitraglia. Il gesto eroico, al pari di quello di alcuni suoi uomini, verrà ricompensato dalla concessione di un’importantissima onorificenza di guerra: l’ordine della corona di Hohenzollern. La tattica di combattimento messa in atto da Jünger, assai rischiosa, sotto il profilo strategico rappresentava il primo tentativo di rompere “il cerchio mortale della guerra di posizione” (p. 162).

     Il confronto dell’intellettuale tedesco con il coraggio è stato lungo ed articolato. Della cosa si occupa, in una trattazione chiara ed organica, Sandro Gorgone. Lo studioso ricorda come dalla fase romantico-eroica, ben descritta nei diari di guerra, Jünger transitò ad una concezione più matura del gesto eroico. Questo sorge come risposta ad una situazione data, come accade nei combattimenti al fronte, ma si identifica con una sorta di paziente resistenza all’entropia della vita che in alcune situazioni limite, si esalta e si amplifica. Lo scrittore narra come anche nei momenti di maggior rischio, quando l’impulso lo indusse a chiudere gli occhi di fronte all’orrore della morte e lo spinse a “non sapere, non vedere più nulla! Soltanto fuggire, fuggire, verso l’oscurità più profonda!” (p. 172), riemerse in lui il senso della responsabilità, l’ “etica della terra”, che lo spinse ad interessarsi dei soldati che gli erano stati affidati. Insomma, non vi è coraggio senza paura. Infatti, “al cospetto della morte…viene messa alla prova la virtù virile dell’uomo, la greca andreia” (p. 173). Si tratta di un coraggio senza nome, anonimo, attivato dal dolore. Il coraggio è la capacità di resistere al manifestarsi della potenza dell’elementare che, si badi, nel mondo della tecno-scienza, ha trovato il luogo della sua massima espressione, la più coerente congiunzione di ricerca dell’ordine e di pericolo montante. Il foro interiore è lo spazio in cui rinvenire le forze della resistenza, in    tranquillità senechiana “risultato, mai del tutto definitivo e garantito, di una costante “cura di sé” (p. 181). Il coraggio è il risultato di una guerra interiore, davvero santa, condotta contro gli impulsi animali che ci abitano. Guerra che a loro modo intrattengono sia il Ribelle, nel suo passaggio al bosco quale luogo della libertà originaria, che l’Anarca. Questi, nel suo disimpegno, può “vivere tranquillamente al riparo di una funzione oscura” (p. 188), superando finanche i residui soggettivistici del Ribelle.

   Il coraggio è retaggio di alcuni popoli, tra questi vanno annoverati i Vichinghi. Il tema è analizzato, in due diversi scritti, da Carla Del Zotto e Dario Coppola. Nel primo si presentano le relazioni di epos e storia nell’età vichinga, dalla fine dell’VIII secolo alla metà dell’XI, muovendo dal presupposto che l’aver coraggio per questa etnia, consisteva nel credere nella “forza” di cui sono portatori i singoli: una ballata popolare danese recita “Credo per primo nella mia buona spada/ e nel mio buon cavallo,/ poi credo nei miei valorosi compagni/ e soprattutto credo in me stesso” (p. 59). Il secondo scritto narra le scoperte geografiche e le esplorazione nautiche compiute dai Vichinghi “Solo chi ha coraggio ha la forza d’animo necessaria a non affrontare sconsideratamente rischi e a sopportare con serenità dolori e sacrifici”. Di un altro popolo, creato dalla fantasia di Tolkien, ci dice Gianfranco de Turris, in uno scritto dedicato agli Hobbit. Agricoltori e pacifici, Frodo, Sam, Merry e Pipino, curiosi, vogliono scoprire cosa vi sia oltre i confini della Contea e “…non dicono no al richiamo dell’Avventura e del Viaggio, dimostrando…quel coraggio della gente normale che non ti aspetti” (p. 11). Il coraggio di svolgere al meglio il proprio dovere. Nel mondo della Tradizione ciò era  norma, oggi l’ incredibile eccezione.

    Enzo Paci ci presenta il coraggio esistenziale ed intellettuale di Nietzsche. Il filosofo fuggitivo, colui la cui vita è una sorta di quotidiano morire a se stessi, per aver avuto l’ardire di alzare lo sguardo sul Nulla, è ben rappresentato dall’incisione di Dürer Il cavaliere, la morte e il diavolo, simbolo dell’accettazione del destino di morte che attende l’intrepido cavaliere. Carlo Bagnoli, invece, si occupa del coraggio in Pirandello, ben esemplificato dalla teoria del “lanternino” che il signor Anselmo Paleari illustra ne Il fu Mattia Pascal. L’uomo non deve irrigidirsi, deve mantenersi fedele al flusso incessante della vita, deve restare “viandante senza casa”, altrimenti rischia di costruire per se stesso una “forma” inesistente, una messinscena teatrale destinata a crollare su se stessa. Infine, Mario Venturi informa il lettore del coraggio politico dell’aviatore Adriano Visconti, uno degli assi dell’Aviazione Nazionale Repubblicana, che pagò con la vita la sua scelta di coerenza e fedeltà al fascismo.

   Gianni Vannoni sottolinea come in uno dei miti fondativi della nostra civiltà, quello del ratto d’Europa, questa venga rapita da un toro, simbolo del coraggio. Ecco, l’Europa qualora volesse davvero ritrovare se stessa, dovrebbe tornare a considerare il coraggio quale tratto ineliminabile della sua storia.       

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