Editoriale

I cinesi fanno indossare una maschera sorridente ai dipendenti per nascondere stress e stanchezza

Se se ne accorge Renzi farà una postilla al job act e saremo definitivamente rovinati

Riccardo Rosati

di Riccardo Rosati

a Cina ormai è sempre meno il Celeste Impero del tempo di Matteo Ricci, e sempre più un laboratorio culturale dal quale escono talvolta strambe, inquietanti notizie. Ad esempio, abbiamo saputo che negli ultimi giorni sono stati fatti dei primi test in alcune aziende per alleviare la fatica da lavoro, letteralmente “togliendo il volto” ai dipendenti, riducendoli a delle figure spersonalizzate. L'idea è parte di un programma chiamato “giornata di relax”, un progetto per ridurre i livelli di stanchezza fisica e mentale durante il lavoro. Si sono sollecitati i dipendenti a presentarsi in ufficio indossando una maschera, alcune delle quali hanno le fattezze degli eroi dei cartoni giapponesi; cosa che ha quasi del paradossale se si considera la poca simpatia dei cinesi verso i nipponici, ma si sa, la cultura popolare e consumistica del Sol Levante detta ormai da anni il canone della contemporaneità in Asia. Questo a dir poco folle espediente mira a evitare che gli impiegati, almeno per un giorno, fingano un sorriso permanente, sviluppando in tal modo uno stress interiore.

Non tutti forse sanno infatti che nelle grandi aziende cinesi i lavoratori sono obbligati a stamparsi sulla faccia una espressione determinata, ma pur sempre cordiale e inoltre mostrare entusiasmo al capo ufficio quando dà un ordine. Dunque, sorridi, obbedisci e soffri. Tre semplici regole che il cinese può solo che rispettare; una mentalità così diversa dalla svogliatezza e indole polemica dei “sindacalizzati” dipendenti pubblici italiani! Tuttavia, stiamo pur sempre parlando di cinesi e non di giapponesi. Ragion per cui, alla fine un minimo di umanità la si ricerca persino nell'asfissiante mondo degli uffici. Si è pensato perciò di aiutare le persone a svolgere senza ipocrisia il proprio dovere, cosa giusta ovvio, privandole però della personalità; anzi addirittura del volto! Sarà forse un modo utile per aiutare gli impiegati a rilassarsi un po', ma ai clienti chi ci pensa? Un poveraccio che entra in ufficio per chiedere un servizio può essere costretto a relazionarsi con la maschera inquietante di Guy Fawkes o con quelle che rappresentano gli spiritelli shintoisti de “La città incantata” (2001), prodotto dal mitico Studio Ghibli, con la regia di Hayao Miyazaki? Beh, alla faccia, è proprio il caso di dirlo in questo caso, della rigida morale confuciana, tutta tesa nella creazione di una società strutturata nel modo più verticale possibile, con tanti doveri, ma anche qualche importante diritto. La “giornata di relax” cinese riduce la dottrina del lavoro di maoista memoria a una burla da fumetti, giapponese per giunta. Non c'è dubbio, vi è un po' di confusione sotto il cielo della Terra di Mezzo, come si chiama la Cina. Resi anonimi da una maschera, gli impiegati possono finalmente fulminare con lo sguardo il cliente maleducato o ridicolizzare il capoufficio che incita al sacrificio per il bene supremo dell'azienda.

Curioso notare che quella autentica malattia, riconosciuta persino dalle assicurazioni, che mieteva tante vittime in Giappone per lo stress da lavoro, il cosiddetto “Karōshi”, oggi si sia “trasferita” nella nazione nemica per antonomasia, giacché lo stress degli impiegati in Cina è un problema grave, tanto da diventare una vera e propria sindrome: il «Guolaosi»: «guolao» significa troppo lavoro fisico e «si» morte. Perfino  i caratteri sono identici a quelli del termine giapponese (過労死),  seppur nella versione semplificata (过劳死) come è consuetudine nel cinese contemporaneo della Repubblica Popolare. Sono purtroppo lontani i tempi del teatro delle “ombre cinesi”, con le sue suggestive sagome scure che riempivano di meraviglia gli spettatori. Oggi, si costringono le persone a indossare delle maschere, così da cancellarne l'identità. Come andiamo sostenendo da tempo, abbiamo proprio a che fare con una “Cina che non c'è”. 

In fin dei conti, il tema delle maschere non è poi estraneo al pensiero tradizionale orientale. Non è un caso, dunque, se di recente troviamo tale argomento inserito in un racconto dell'autore coreano Yi Chʻŏng-jun. intitolato “Il profeta”, in cui si narra della signora Hong, proprietaria di un locale notturno, che impone ai suoi clienti di indossare una maschera. Nel racconto di Yi, la dinamica originata dall’introduzione delle maschere allude allo spossessamento della soggettività degli avventori del suo locale, che accettano quasi con entusiasmo di cessare di essere se stessi per divenire marionette, incapaci di opporre la propria identità al potere assoluto artefice della manipolazione degli individui.

Tirando le somme, i tanto odiati nipponici hanno almeno in parte risolto il problema dello stress non certo ridicolizzando il lavoro con maschere e cose affini, bensì con un drastico cambiamento del sistema economico e del lavoro, quest'ultimo oggi ben più precario, ma almeno più “umano”. In Cina, per converso, sul mondo del lavoro non si discute molto e si pensa di risolvere il tutto con un “giorno di ordinario anonimato”, privando la gente del volto.

 

* Ringraziamo Annarita Mavelli per la utile segnalazione del racconto di Yi Chʻŏng-jun.

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