Compagna poesia

Una favola su sé stesso di Mario Sironi

di Piccolo da Chioggia

Una favola su sé stesso di Mario Sironi

Avevo scritto in un capitolo passato degli scrittori capaci di disegnare con efficacia. Un dono corale di Muse esplicatosi in una sorta di doppia vocazione ove il talento principe, poetico o di raccontatore, trainava con sé in guisa di talento cadetto quello del figuratore. Accampavo pure, nella mia risalita ai Numi tutelari di questo esprimersi in forme d’arte del gran Wille dell’universo attraverso il genio individuale, i nomi di Francesco Petrarca e di Michelangelo Buonarroti. Il primo che si è scoperto essere l’abile disegnatore, coll’inchiostro forse reliquato dall’aver redatto i testi d’un codice, di un piccolo quadretto di lato che susciterebbe delizia al Papini nel poter rintracciare un altro inconfondibile segno di consapevole Rinascenza, ovvero d’imitazione del Padre, nel medievale poeta di Laura. Il secondo che ci sorprende, e distrugge nelle eventuali ambizioni di eguagliarlo, per la potenza del suo genio quando lo scopriamo stare tra i massimi poeti della nostra lingua. Nel genio fiorentino della Sistina il gran Wille schopenhaueriano è divenuto davvero un naturale Kȍnnen, un poter fare, al di là d’ogni ostacolo. 

Ma disposti questi due Nomi di grandi a Numi tutelari del nostro modesto scorrere di pagine di volumi e sfogliare immagini dopo immagini di cataloghi ecco che ci si imbatte quasi per caso in una poesia che non lascia insensibili. È un animo tormentato che la scrive e però riconosciamo che in quest’animo oltre la superficie d’un mare increspato da onde turbinose o d’un paesaggio avvolto nella tempesta di venti e lampi, perveniamo a intervalli entro versi che ci ospitano come viatori dispersi fra le montagne in bufera in un rifugio quieto e sicuro o versi che come un ignoto delfino impietosito dalla nostra tragedia di naufraghi ci carichi a rimorchio per condurci in un porto riparato, entro il seno d’un ‘isola salvifica. Vi è di poi da aggiungere che questa poesia estremamente plastica per le immagini che suscita non è opera d’un letterato bensì d’un pittore e del massimo dell’era fascista: Mario Sironi. Essa ha un titolo assai esplicito: Compagna poesia, ed è stata scritta negli anni del secondo conflitto. Verrebbe da presumere che i desolati versi siano frutto più dell’approssimarsi della fine della guerra che non del suo retorico e troppo baldo inizio. È scritto nel poema dei Nibelunghi che troppo spesso le risa finiscono in pianto e in queste linee scarne e costellate di perfette trasfusioni in parola delle tavole del pittore sembra potersi scorgere l’allusione a tale trapasso di stato d’animo. La tragedia della guerra, sia essa al suo avvio, sia essa alla fine col suo mare d’immense rovine forse serve solo a far rammentare nel poeta gli anni giovanili ribelli e bollenti di vino e gioia futurista. Coronati ora dalla melodia morente che del mondo sorto dalla prima guerra mondiale cui Sironi aveva partecipato da volontario nel battaglione lombardo dei ciclisti ne accompagna la fine dolorosissima. 

Ma per quanto pervasi di cupo ed agitato senso di tragedia questi versi agiscono, proprio per dolci tratti del ristoro celeste dove appunto si condensa l’essenza stessa di ogni poesia, come fredde immagini di quell’apertura all’ascesi della contemplazione che induce nella mente lo stato di “Verneinung des Willens”, la “Noluntas” di cui scrive Schopenhauer: l’istante di grazia nel quale cade lacerata come un vecchio lenzuolo l’angusta visione individuale e ci sentiamo parte consapevole e ammirante dello spettacolo di questo universo.          

Compagna poesia

Perché vuoi morire?

Perché sei tanto stanco

di vagabondare dietro i tuoi sogni


Perché vuoi morire

cadere nel cielo

profondo

ombra

piena di tristezza


Perché vuoi morire 

ora che il cielo 

fiammeggia e costiere 

immense 

si accendono di luce siderale

Vieni con me laggiù –nei laghi

di cristallo 

nei mari siderali 

nelle isole prodigiose

laggiù felici

ombre tornate alla vita 

dopo morte

una vita immortale


Mi siedi vicino

lo so –non ti allontani mai

sei la compagna ardente

baciami ancora o Dea

poesia baciami diletta

dilettissima –stringimi a te

al tuo seno che io possa 

appoggiare il capo sulla tua spalla

soave –Cieli azzurri

azzurrissimi –Cieli 

di smeraldi profondi oscuri


Palpitano le stelle

tu non ci sei più

sei sparita

sono tornato solo 

solo sotto le stelle palpitanti

solo sotto l’immenso 

sipario di pianto

solo nell’ombra immensa paurosa


Ora ti ho vista

ti inseguo furtivo

ora ti veggo nel cielo


Musa viola

tra i muschi e le betulle

e le rupi bianche

e solitarie

Ah il ricordo straziante

il vino, i sogni tenebrosi

la vita cara ribelle

con le unghie di belva

le melodie morenti

oltre le siepi 

odorose, la

luna bianca nel cielo e 

le mura bianche e 

le piccole case

candori

oh tu mi hai parlato 

ti ricordo


divina nella luce 

ti chiamo

col vento nelle chiome

di luce e d’oro

correre correre

sui prati fioriti

correre al galoppo

cavalcata sfrenata

correre correre

gualdrappe rosse e dorate

e finimenti scintillanti

per la costiera luminosa

tagliati nel cielo d’opale

Strada percorsa da un viandante 

sopra un ponte e un abisso

sotto le muraglie vaste 

delle montagne

e il sole lancia tra muro e 

muro un niagara di luce

polverizzata

luce che mi colpisci nel cuore

frecce d’oro avvelenate

frecce sibilanti

infisse e risuonanti

nella carne dolorosa del mio cuore


Poesia –ti ho vista- Ti ricordo

nella via silenziosa

Mi venisti incontro

con gli occhi ardenti

e io caddi in deliquio

in una tempesta di pianto


Passarono lagrime come sbattute

dalla tempesta

rigavano il cielo sibilando

ti cercai, con le mani tremanti

sipario immenso 

lacerato 

contro il nero definitivo 


Postilla

Ho trascritto la poesia con qualche lacuna volontaria. Ma ho fatto questo perché mi pareva di poter appoggiarmi sul grazioso precedente che voglio raccontare. Mi rammentavo infatti di aver letto una memoria spiritosa di Giorgio Albertazzi rimastami impressa. È di quando il giovane, già sottotenente del 63esimo battaglione M “Tagliamento”, era un esordiente nel mondo del teatro e, invitato ad una serata di gala in un’augusta dimora fiorentina, aveva dato sfoggio delle sue indubbie qualità di dicitore. Recitando un poema Albertazzi racconta – ma chiedo al bravo lettore di eventualmente verificare qualche probabile slittamento perché ora scrivo anch’io a memoria-di aver infiammato un pubblico costellato da una non trascurabile aliquota di dame in ghingheri ed affascinanti. Il poema era però alquanto lungo e in qualche punto la bravura dell’allegro attore si prendeva l’arbitrio scherzoso di scorciare il poema a suo insindacabile piacimento. Era balenato un successo e dopo la recita, scendendo le scale, l’Albertazzi plausibilmente contornato di donne adoranti costeggiava sulle rampe un attempato e distinto signore che era stato presente alla serata. Questi era subito riconosciuto e si trattava proprio di Eugenio Montale. Albertazzi, forse lievemente a disagio si scusava con il poeta dei meriggi assorti e dello svaporar di essenze, dell’aver lui stesso svaporato un poco la poesia recitata ma Montale lo rincuorava di buon animo dicendo che in effetti a volte è necessario scorciare qualche poema troppo lungo. Mi sembra che in questa storia i due caratteri, quello dell’attore fiorentino scanzonato e quello del poeta di Monterosso si siano davvero ben profilati…  

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    1 commenti per questo articolo

  • Inserito da Sandro Giovannini il 02/08/2015 10:02:27

    centratissimo il commento ed ancor più godibile la postilla...un grazie di cuore per la bellezza del tutto. Sandro Giovannini

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