Se scrivo fantasticando non per questo mi pare di smarrire la rotta

IOS in allegoria con il Delfino d’Apollo

di Piccolo da Chioggia

IOS in allegoria con il Delfino d’Apollo

Rammento che in quel di Venezia sempre mi soffermo, una volta arrivato alla riva che argina la spianata d’acque antistante il palazzo ducale, ad ammirare i lari argentati che, bravi esperti dei venti, volano a vela proprio sopra le guglie del palazzo sfruttando la corrente ascendente che si forma su questa facciata del capolavoro dell’edilizia civile gotica. Il vento che proviene dalla direzione del San Giorgio Palladiano trova infatti nel roseo bastione pinnacolato, orgoglio della Dominante, l’ostacolo che ne devia la rotta verso l’alto. Una corrente in elevazione si forma esattamente sopra le guglie e di questa profittano i lari per scivolare lentamente senza battito d’ali fino alla strada che dalla riva transita alla piazza San Marco, poi con una qualche manovra curvano a largo giro verso la spianata d’acque e con battito d’ali invertono la rotta e risalgono con tratti a volo battuto fin verso l’estremo orientale del bastione per farsi cullare di nuovo sulla corrente in ascesa e scivolare a valle. I piccoli capi dei volatori, durante la lenta scivolata ad ali immobili, da veri alianti, roteano a destra e a manca come per gioire dello spettacolo che si dispiega ai loro occhi: corpo, ali, coda sono immobili come irrigiditi in un candido aeromodello d’altri tempi, centinato e ricoperto di carta telata, e solo il capo rotea osservando il paesaggio magnifico.

Avevo immaginato, proprio durante una di queste visite alla riva che si apre al panorama senza pari della basilica palladiana erta sulle acque, uno dei molteplici scarabocchi lagunari per i quali volevo fissare in uno schizzo suggestivo e facile a rammentarsi stadi o figure salienti dell’arte che mi erano rimasti impressi nella memoria. Fra questi l’ancora col delfino attorcigliato allo stelo di Aldo Manuzio. E mi era balenata la visione d’una incombente ancora col suo sorridente delfino sospesa in aria tramite una lunga fune tesa verso l’alto e annodata all’anello dell’ancora. Come sfondo avevo abbozzato ora la siluetta del San Giorgio palladiano erto sulle acque, ora un paesaggio indefinito di laguna veneziana.

Mi avvedo ora che i tratti piuttosto sommari dei miei scarabocchi celavano senza che vi avessi mai pensato una graziosa coincidenza che disvela, se si vuole, una bella allegoria. Il senso di attorcigliamento del delfino d’Apollo sullo stelo dell’ancora lo avevo scarabocchiato all’inverso di come lo aveva inciso il sommo tipografo romano e veneziano nel suo emblema. Avviene questo perché è mia tecnica leggere e osservare le figure senza immediatamente fissare degli appunti. Questi li posticipo quasi sempre facendo in modo che su essi si riverberi quello che ha filtrato la mia memoria. Di poi rileggo quanto ho scritto e riosservo ciò che ho disegnato onde vedere come ha agito il filtro del ricordo. Ma nel caso del delfino di Manuzio, e me ne avvedo solo ora dopo averlo scarabocchiato tante e tante volte, l’animale apollineo non si attorciglia secondo una S quale io avevo creduto di vedere. La adombra nel verso opposto ovvero con la coda che più in alto del capo volge a sinistra e il capo che, al contrario, volge sorridente a destra. 

La sigla IOS che avevo apposto in effige in alcune delle mie vignette torcendo il povero delfino in una bella S nasce dunque da un malinteso nel mio rammentare l’ancora aldina. Un malinteso, ma non troppo, perché plausibilmente il dottissimo professor Dumézil vi ha provvidamente gettato senza che lo volessi un lembo del suo ampio mantello: la fune dall’alto e tesa dal peso dell’ancora che la prosegue nel suo stelo sia la I della sovranità che in discesa dalle nubi cariche di piovaschi è più che varuniana, l’anello cui essa fune si annoda sia la O, il circolo che raffigura l’atto che dà forma, l’ordine di Indra, la S è rappresentata nel delfino che è l’emblema di bellezza apollinea ed è transitabile in senso di salute. Delfino che traina con un toro il carro ricco di gemme e medicamenti degli Asvini gemelli come già è proclamato da un inno del Rg-Veda.  

Se scrivo fantasticando non per questo mi pare di smarrire la rotta. Che è data dalle similitudini che mi affiorano lungo le riflessioni su pagine lette o quando osservo gli scarabocchi che traccio senza regolarità temporale e purtroppo senza la tecnica adeguata che ammiro nei maestri. Dunque scarabocchi il cui valore è, se possibile, unicamente quello di essere semplici vignette, nel senno ricordato nel capitolo sui bozzetti di Guareschi. 

Come anticipavo, sono all’incirca tre i quadretti entro i quali disponevo quella composizione di ancora aldina calata da una fune che ora possiamo dire una allegoria. Essa non evoca però soltanto l’armonica tripartizione dell’olimpo indoeuropeo ma, a ben vedere procede oltre. La fune che dalla distesa di nubi celesti cala l’ancora col sorridente delfino si esplicita pure come una possibilità proveniente dalla regione di Varuna, ovvero da un nume del quale, in quanto sovrano imprendibile ed invulnerabile, ma a sua volta legatore ingannevole con i suoi “lacci”, possiamo dire che sia una sorta di arbitrio imperscrutabile e divino a specificarne il nucleo dell’azione. Questa possibilità si manifesta in un’àncora che reca seco il glorioso delfino degli Asvini, il soccorritore dei naviganti. Uno strano dono, quello offerto dal notturno legatore, perché si tratta di un “ancora di salvezza” che adombra un agire puramente estetico. Non rivolto a nulla di utile ma figurante in vasta misura la contemplazione della bellezza. In primo luogo certo quella della natura, con i suoi paesaggi multiformi, ma poi anche di quella inverata dalle opere d’arte. Non transito nelle regioni dell’immaginazione più strampalata se vedo in tutto ciò un grazioso e curioso condensato in vignetta, ovvero in favola dipinta, della possibilità dell’ascesi estetica esercitata a traverso la contemplazione della bellezza, sia quella del sublime che si manifesta in natura, sia quella figurata nei grandi capolavori dell’arte con la quale assume per un istante un volto non foriero di solo dolore il supremo “Wille” di Schopenhauer. “Wille” che possiamo immaginare come formula descrittiva, forse troppo unilaterale ma non troppo divergente in senno della maggior parte degli attributi assai temibili del notturno, aggressivo, arbitrario sovrano universale Varuna. 

Se effettuo l’inventario delle fantasie sulle quali ho scarabocchiato la fune che, ora dal cielo, ora da un architrave, cala l’ancora col delfino attorto, mi avvedo pure che ciò è sempre sullo sfondo d’un panorama di acque. Non è un caso di probabilità statistica solo perché queste sono balenate alla vista dello specchio d’acque antistante il San Giorgio palladiano; altri scarabocchi infatti hanno, come già raccontato, per paesaggio circostante la pianura fra colli Berici ed Euganei o l’Alpe delle Dolomiti. In un paio di casi addirittura mi cimentavo ad immaginare una piccola possibile città ideale fra questi monti. In questi disegni avrebbe potuto trovare il suo luogo un braccio in ferro battuto dal quale, non un’insegna di locanda alpina o una bella lanterna che sparga del lume nelle notti, ma l’ancora col delfino si sarebbe trovata a calare, sospesa alla fune che la sostiene, legata all’anello dal nodo varuniano. Non ho obliato di rammentare altrove che la caratteristica aggressiva e inquietante del nume notturno e sovrano è quella di “legare”, cui è connessa la radice var- del suo nome, e “annodare” a sé cose ed esseri. Questi ultimi hanno addirittura composto inni nei quali esprimono il desiderio di non cadere nei lacci ingannatori tesi dall’imperscrutabile nume. La mia àncora quasi aldina è dunque sempre in vista della distesa d’acque. Le acque sono l’oggettivazione dell’elemento fluido e incompressibile del “Wille” universale così come la luce del cielo rappresenta l’elemento del “Wille” per sua natura conoscitivo. Le acque, del cielo sovrastante, captano per così dire colori e forme e raffigurano quella tensione che ha il “Wille” medesimo a conoscere se stesso. Noi in quanto forme delimitate di questo “Wille” partecipiamo a questo sforzo di conoscenza cosmica. Nella contemplazione estetica sospendiamo in noi l’elemento cieco di volontà e siamo per istanti un puro elemento conoscitivo nella sua forma più alta perché nuda di qualsiasi utilità ma gratuita ed affrancata dalla perpetua catena di cause ed effetti gettataci attorno il collo in guisa di “lacci” varuniani. Resta ai nostri occhi per alcuni istanti infatti una sola fune celeste, quella che per una strana offerta o causalità cala di fronte a noi come un pendolo non più ad uso d’imbambolare incauti, l’ancora col suo lieto delfino apollineo. Trasposta questa considerazione entro il quadro dell’allegoria, il senno di questa è possibile che appaia ora al completo d’una più vasta scenografia dottrinale.    


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