Editoriale

Le oligarchie accademiche che controllano e censurano la ricerca

Sembra impossibile ma siamo ancora in regime di monopolio del pensiero unico, per fortuna i giovani non li seguono

Andrea Scarabelli

di Andrea Scarabelli

e polemiche scatenatesi intorno al convegno dedicato all’eredità di Julius Evola sono la dimostrazione concreta dell’esistenza di una grave ipoteca del sapere esercitata datalune cricche universitarie le quali, in opposizione al principio della libera ricerca che dovrebbe regolare gli atenei, preferiscono porre dei veti in base ai propri appetiti di scuola, quando non proprio di partito. La fenomenologia di operazioni del genere segue sempre lo stesso copione: illavoro degli studiosi viene inibito da melliflui consigli,«giudiziosi» quanto intimidatori, elargiti a piene mani da queimaître-à-penser detentori del politicamente corretto dilagante nelle accademie. Inutile ricordare come le scomuniche di cui periodicamente si nutre questa casta universitaria non riguardino solo personaggi «scomodi», ma anche storici e filosofi poco in linea con gli appetiti e le mode epistemologiche del momento. È il loro anticonformismo a spaventare, non certe scelte politiche, spesso tacitamente perdonate ad altri autori e, quando fa comodo, relegate nel limbo dei «peccati di gioventù».

Ma le virulente diatribe di cui sopra possono essere lette in una prospettiva differente. Esse sono le ultime cartucce in dotazione di una casta che sta gradatamente perdendo consenso: queste oligarchie stanno crollando, minate da un lato dal crescente pluralizzarsi dei centri di studio e di ricercaextra-universitari, dall’altro dalla presenza di accademici coraggiosi che osano infrangere i tabù, affrontandoscientificamente argomenti invisi ai più. Le reazioni? Una progressiva conventio ad excludendum, operata con inaccettabili strumenti coercitivi, che spaziano dalle voci di corridoio a mailing list nelle quali la qualifica di «fascista» viene distribuita con una facilità disarmante – metodiinaccettabili, si diceva, a maggior ragione se utilizzati nel campo della ricerca, la quale dovrebbe includere piuttosto che escludere, coagulare piuttosto che dissolvere.

Sennonché la verità sta emergendo, e chi ha vissuto dimenzogne non riesce ad accettarla. Liberiamo la ricerca dai pregiudizi, dalle attività di certo basso giornalismo e dalle cricche accademiche, lasciamo che i ricercatori dentro e fuori dalle università inseguano un’ortodossia metodologica e non ideologica e che il loro lavoro venga valutato in base a criteriepistemologici e non extra-scientifici. Ecco perché, in fin dei conti, la denuncia di un convegno come quello evoliano non è che un’inutile nonché vana levata di scudi – i suoi fautoritemono la verità, la quale, laddove diffusa, dimostrerebbe come il vero sia stato tenuto sottochiave per anni.

Questo attacco, pertanto, non è rivolto solamente contro Julius Evola e la Fondazione che da decenni si occupa della diffusione critica del suo pensiero, ma anche e soprattuttocontro la libertà della ricerca. Non è dai «fascisti» che l’università deve tutelarsi, ma da chi mente sapendo di mentire, da chi (nel 2014!) vive ancora di ipse dixit, di ungramscismo imperante che politicizza o spoliticizza, perdona o crocifigge a suo piacimento.

Ad onta della continua e poliziottesca vigilanza di questa casta di critici, capricciosi e faziosi, sembra, tuttavia, che qualcosa si stia muovendo: nuove generazioni, libere da quella politicizzazione della cultura che ancora stipendiamolti, troppi, stanno presentando il conto a questi gendarmi della cultura. La rabbia di certi interpreti dello«storiograficamente corretto» dimostra allora come un’epoca stia tramontando: un mutamento forse inaccettabile per loro, ma assai prezioso per chi creda in una cultura libera e intellettualmente laica.

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