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Julius Evola, Mircea Eliade

Frammentaria filosofia in Francia, un omaggio a degli obliati pensatori

Le rapport de la science et de l’action ne saurait être marqué par la science même, qui ne saurait jamais donner que ce qui est

di Piccolo da Chioggia

Frammentaria filosofia in Francia, un omaggio a degli obliati pensatori

Eliade e Evola

Se si legge l’opera di Julius Evola e non solo quella che si svolge dai suoi primi testi di filosofia si ha la fortuna di veder nominati pensatori sui quali l’insegnamento delle nostre scuole è passato ad un dipresso quasi senza potersene accorgere. Alludo qui evidentemente ai corsi della filosofia liceale anche se non credo che in quella studiata all’università il panorama si allarghi ad immense vastità o allo scandaglio di abissi assai più profondi.  

La ricerca della grande architettura che ha reso ammirabili le cattedrali edificate del pensiero scolastico prima, idealistico poi, pare essersi trasfusa nella “storia della filosofia”, da alcuni fatta coincidere con la filosofia medesima, per la quale le pietre sparse e indipendenti e difficili a ridursi nella quadratura della costruzione significano come inusabili. Sui pensatori che la fantasia della grande costruzione storica identifica in queste pietre disperse e non squadrabili cade dunque l’oblio, e su di essi viene lentamente a distendersi il manto oscuro della notte filosofica che li riduce a fantasmi che ambulano grigi o neri.

L’agguato teso appunto da Evola al nostro ormai traballante edificio accademico ha preso consistenza presso i suoi fedeli lettori non solo con i volumi sul mondo della Tradizione o in vista di futuri orientamenti e scritti nella lingua cristallina quale è ammirata da molti, e fra questi ad esempio Mircea Eliade, ma ha preso una sua consistenza parallela di fonte e prezioso discrimine tramite i pensatori dimenticati o per nulla noti cui con probità generosa il filosofo romano ha dato i rinvii spesso in una forma tale da causare nel lettore un interesse attivo o quantomeno una benevola curiosità. 

Un primo nome che riappare dall’oblio è quello d’un Francese, Jules Lagneau, un pensatore assai stimato da Evola che ne aveva messo una sentenza a capo della sua prima opera di fondazione della teoria dell’individuo assoluto.      

Questa era la sentenza:

La philosophie, c’est la réflexion aboutissant à reconnaître sa propre insuffisance et la nécessité d’une action absolue partant du dedans.

La volto così nella nostra lingua: la filosofia è la riflessione che termina nel riconoscere la propria insufficienza e (da ciò ne trae) la necessità d’un’azione assoluta che parta dall’interno. 

Poco vi è da aggiungere come postilla erudita alla lapidaria frase francese: la filosofia non può tutto e deve servire solo a propiziare quell’azione interiore che trasformi la nostra mente e ne causi l’evoluzione a stadi di coscienza maggiore. Massima attiva di modestia e prudenza riguardo alla celebrata disciplina che nelle romantiche individualità degli idealisti tedeschi aveva cercato in uno sforzo ora nobile ora non immune dall’esser tracotante di abbracciare l’intero universo.

Una riflessione ovvero un quesito estemporaneo sulle immensità adombrate nei processi della filosofia idealistica: l’io che genera il non io, lo spirito che vuole far sua tutta la natura e risolverla nello spirito universale et cetera, tutte le quasi simpatiche fole di questi passi cosmici quanto devono molto più semplicemente agli zoccoli dei cavalli e alle ruote dei treni d’artiglieria napoleonici? Tutto mi pare muoversi, all’epoca, nell’ombra del MitraVaruna di Ajaccio. Le costruzioni delle grandiose cattedrali del pensiero mi sembrano il passatempo del pensatore in pantofole e mantellina che fa suoi, a suo modo, i rivolgimenti causati dal moto inarrestabile dell’astro dell’Empereur.

Un’altra sentenza del Lagneau:

La philosophie, c’est la recherché de la réalité par la réflexion d’abord, et ensuite par la réalisation.

Voltata così: la filosofia è la ricerca della realtà pel tramite immediato della riflessione cui segua la realizzazione. 

Di nuovo l’atteggiamento costruttivo dell’obliato professore francese. Di nuovo viene adombrato un qualcosa che se non è possibile in fondo precisare, perché esso è giocoforza interiore e individuale e in più relativo all’evoluzione mentale, qui è nominato, detto qualcosa, con un neutro ma esplicito “realizzazione”. Come intendere? Osservata la realtà di un avvenimento interiore, invidia, risentimento, meschinità, generosità prodiga e senza discrimine di valore et cetera se ne effettua il serrato studio, la “riflessione”, la si isola nelle sue radici, nelle sue cause entro il nostro essere, se ne realizza il superamento con una ferrea disciplina. Non sentimentale ma realistica, razionale. Per quel che possono valere certe formule, la speculazione di Jules Lagneau era stata definita una specie di “razionalismo dell’etica” ovvero della morale.

Le rapport de la science et de l’action ne saurait être marqué par la science même, qui ne saurait jamais donner que ce qui est

Una frase non priva di oscurità che avvalora la necessità della riflessione filosofica. Tento di voltarla in italiano, avvisato in ogni caso il lettore autore di prendere cautamente tutte le linee non semplicemente descrittive che qui compongo: il rapporto fra la scienza e l’azione non potrebbe sapersi marcato (dominato) dalla scienza medesima, la quale altro non può dare che ciò che semplicemente esiste.

Cosa intendere? Propendo per la necessità della riflessione individuale, uno stadio che è esso stesso filosofia, dinanzi a qualsiasi azione, prima di ogni intrapresa. Lapalissiano si può pensare. Ma una constatazione per il fatto di essere lapalissiana non per questo, se ha valore, ne sorte diminuita.

…Elle (la philosophie) a au contraire sa clarté à elle, bien superieure à celle de l’évidence, clarté brutale, qui 

n’explique rien, qui frappe et subjugue. Mais pour conquérir cette autre clarté, il faut un effort et quelque courage…


Questa frase complementa la precedente e la rende un po’ meno oscura. La volto in questa guisa: 

…dunque la filosofia al contrario ha la propria chiarità, la quale è ben superiore a quella dell’evidenza, una chiarezza brutale che nulla dice ma che colpisce e soggioga. È però per far la conquista di quest’altra chiarità ci vuole uno sforzo e financo un certo coraggio…

Prorompe l’istinto nobilmente morale, cosa del tutto diversa dalla “cura moralista”, della speculazione di Lagneau; l’evidenza non dice altro, ovvero non dà che il semplice dato presente ai nostri deboli sensi, i quali lo intendono secondo la loro poca forza. È con la riflessione, e dunque con lo sforzo filosofico che ci rendiamo conto dell’evidenza e ne squaderniamo necessità e ragioni. E a ciò occorre però non solo della fatica ma pure del coraggio.  


E ancora, di contro alla piatta aridità dell’evidenza, Lagneau riafferma il compito della filosofia:


La philosophie n’est autre chose que l’effort de l’esprit pour se rendre compte de l’évidence.


Ovvero che la filosofia altro non è che lo sforzo dello spirito di rendersi conto dell’evidenza. Uno spirito che qui se ne resta lontano dalle pretese immani a lui affidate, in quanto spirito universale, dall’idealismo precedente. Dottrina romantica la quale però lasciava povero di mezzi lo sguardo verso l’interiorità di chi agisce o contempla. Nella speculazione di Lagneau si prospetta il ritorno allo spirito inteso come interiorità dell’individuo, quella regione nella quale come visto sopra, riconosciuta l’insufficienza della riflessione si rende necessaria l’azione assoluta che si diparta dall’interno. Lo stadio del rendersi conto dell’evidenza, inteso in questo frammento del Francese, è pure un aspetto di questa riflessione. 

Si può notare come, sulla distanza che separa gli idealisti germanici da Lagneau si sia frapposto Schopenhauer, studiato che fosse, o meno, dal Francese, per il quale la casualità della Storia, il suo arbitrio spesso insensato demoliscono le pretese dello spirito universale, nominate in un passo del capolavoro del Tedesco quali “volgari filosofemi”. L’unico spirito con il quale si possa aver a che fare in modo attivo essendo quello che si manifesta nella nostra interiorità.


Una sentenza di Jules Lagneau  che sembra riportare la filosofia a dei tempi quali erano quelli dell’epoca tragica degli Elleni, dove le intuizioni spesso erano condensate in massime attorno le quali riflettere. Qui è fatta questione di due a priori, l’etendue, la quale ci avvisano dei commentatori del Francese non essere lo “spazio” come lo intendiamo comunemente, ed il tempo. 

L’étendue est la marque de ma puissance. Le temps est la marque de mon impuissance.

Con l’avviso nominato risulta a questo punto forse più adeguato tradurre la sentenza lasciando dischiuso uno spiraglio d’immagine poetica. Le grandi distese sono la marca della mia potenza, e segno della mia impotenza è il tempo.  

Una frase le cui allusioni sono molteplici e si condensano effettivamente entro l’immagine di etendue. Penso qui a certe sonnige Weiten di alcuni passi della letteratura tedesca, ovvero “grandi distese, praterie, assolate” quali le possiamo ammirare nel panorama del bassopiano centro e nordeuropeo, paesaggi fatti di lievissimi declivi che si susseguono a perdita d’occhio, e qui il segno della mia potenza nell’abbracciarli visivamente e trasmutarli nella mia interiorità, fino a che il tempo, a suo arbitrio, non mi veli questa veduta. Semplicemente ad esempio al calar d’una notte senza luna e luci. A questa etendue si può forse porre a confronto il sublime dinamico quale viene descritto con afflato poetico dal filosofo del Wille e della Vorstellung.

Un’altra allusione sicura e notevole la possiamo trarre noi ricorrendo alle idee di “civiltà dello spazio” e “civiltà del tempo” che il lettore attento dell’opera di Evola incontra addirittura nei suoi articoli di giornale,  La “civiltà dello spazio”  essendo quel tipo di civiltà rivolta alla comprensione spirituale delle cose e degli enti, intenta a stabilire dei ponti con la trascendenza e non intenta a rincorrere il tempo nel suo continuo e inafferrabile divenire. Una civiltà che dunque trasfonde nello spazio i segni e i modi della propria tensione spirituale. Per essa le cose e gli enti spaziali sono il segno materiale di realtà superiori da abbracciare e comprendere e non mero oggetto di conquista come ciò è nella “civiltà del tempo”. Nel primo caso essendo evidente la potenza che vi risulta dal rendersi conto della realtà trascendente di ogni cosa, nel secondo essendo evidente la labilità di qualsiasi dominio materiale sottoposto al tempo, segno della nostra impotenza.   


Ne “Il cammino del cinabro” Evola non scarta dalla linea tenue ma persistente che si dipana lungo ognuno dei suoi testi. In essi vi è sempre un qualcosa da imparare, e sempre vengono dati dei riferimenti precisi dai quali, avvicinatosi alle fonti, il lettore possa trarre a sua volta spunti in proprio. E nel raccontare del proprio periodo di filosofo, quando volle regolare la sua posizione in seno alla speculazione di quel tempo, Evola nomina alcuni obliati pensatori francesi a lui cari, i quali troppo facilmente venivano scartati dall’idealismo italiano e dal mondo accademico di allora. Fra questi uno Svizzero, Charles Sécrétan vissuto lui pure nel tramonto del positivismo e dell’idealismo di fine ottocento. Di questo filosofo una sentenza che ci porta, se si vuole usare un’immagine pittoresca, ad altezze di guglia gotica:

La liberté de Dieu repose sur sa nature même; elle est essentielle, éternelle. C’est la seule chose dont il soit permis de dire: elle ne peut ne pas être.

Traduco in questa guisa cedendo volutamente a qualche variazione stilistica: la libertà di Dio riposa sulla natura sua medesima; essa è essenziale ed eterna. È la sola cosa per la quale sia permesso di affermare che essa non può non essere.  Commentare è inutile, data la bellezza estetica di questo asserto e vale quindi di leggere senza intermezzi la sentenza seguente: 

Substance, il se donne l’existence; vivant, il se donne la substance; ésprit, il se donne la vie; absolu, il se donne la liberté. 

Tradotta con simile stile alla precedente: in quanto sostanza egli si dà l’esistenza; come vivente , egli si dà la sostanza; in quanto spirito, egli si dà la vita; assoluto, egli si dà la libertà. Tutto si riferisce evidentemente al Dieu del quale pare darsi una specie di bella descrizione razionale e mistica. Pure qui commentare è in più essendo la chiarità della frase di Sécrétan cristallina, nella sua forma quasi di deduzione matematica continua. Piuttosto è interessante osservare l’intermesso spirito, egli si dà la vita, un qualcosa che possiamo ascrivere in senso lato e completo a quelle nascite di enti divini, per i quali si può immaginare essi abbiano scelto la nostra esistenza onde testimoniare la realtà incarnata, di quello spirito troppo suscettibile di ricami filosofici o religiosi. Essi , in quanto spirito, si sono dati la vita, ovvero hanno scelto a loro arbitrio di nascere e manifestarsi nel mondo visibile. 

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