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Opuscolo austrogermanico

Buchweizen, grano delle faggi

Intorno al 1600 nelle valli del Tirolo meridionale, e quindi in contiguità con le regioni venete, il Buchweizenschmarren, una specie di frittata a base o di farina o di pappa di fagopiro...

di Piccolo da Chioggia

Buchweizen, grano delle faggi

Buchweizen

Scorro le pagine d’un opuscolo edito da una società naturalistica d’oltralpe quando incontro una bella immagine fotografica in colore. Una distesa di minuti fiori rosati su piante dallo stelo piuttosto alto, quasi delle erbe ben cresciute che ospitano al sommo una distesa di petali rosa. Sullo sfondo rocce grigie. La didascalia dell’immagine ci porta sulle pendici dell’Himalaja. A oltre 3000 metri d’altezza fiorisce il grano saraceno, in tedesco Buchweizen. Leggo con estrema attenzione lo scritto del quale riporto per sommi capi le notizie interessanti pure se non si sia dei botanici. La pianta non è un cereale ma una poligonacea, nome di genere invero curioso, e definita Fagopyrum. In italiano si dà pure il termine mutuato dal latino botanico e si dice fagopiro. A steli alti da 30 a 90 centimetri, la pianta presenta delle foglie innestate a ordine alternato e di foggia triangolare con i contorni però arrotondati. Sugli apici biforcati fioriscono delle corone di cinque petali rosei ciascuna e da queste prende forma in un tempo che va da dieci a dodici settimane una noce, detta acheno, a tre spigoli. È quest’acheno, grazioso nelle forme ed inscrivibile in una sfera di circa tre o quattro millimetri di diametro, ad essere o macinato per trarne farina o a essere bollito rudemente come si è descritto nello scritto di alcun tempo addietro e dedicato alla Greschka. Mi concedo una ulteriore immagine che non credo troppo campata in aria, stante l’osservazione attenta che riservo all’acheno nutriente, se dico che detta noce assomiglia nel suo profilo, in una guisa per me dilettevole, alle cupole delle chiese russe. Con l’unica differenza che essa è, vista in pianta, non tonda ma sviluppata secondo un perfetto triangolo. Si comprende quindi la ragione del nome di genere. Cerco di essere più preciso nell’immagine: poggiato con un po’ di cura l’acheno sul dorso d’una mano per la sua base, che essendo minima gli assicura un equilibrio piuttosto precario, se lo si osserva in controluce si vedrà l’inconfondibile forma a fiammella o ad uovo appuntito in alto delle cupole russe. Forma e colore della minuscola noce la fanno rassomigliare alle faggiole, motivo pel quale nei paesi di favella germanica la pianta prende il nome Buchweizen che voltato ad un pressappoco vuol dire come grano delle faggi, die Buche essendo il faggio, in latino Fagus, der Weizen essendo il frumento. 

Se lo scritto dell’opuscolo austrogermanico indugiava sull’origine geografica della nostra pianta qui ritengo di non dedicarvi oltre un minimo. Pare, ma accentuo il pare, che questo fagopiro sia venuto con le migrazioni di popoli dall’oriente estremo. Già lungo il 1600 e dipoi nel secolo successivo, popolazioni rurali del centro Europa, delle Alpi e dell’Europa orientale facevano largo uso della preziosa pianta, in ragione anche delle sue pretese assai modeste, le bastano infatti per fiorire anche suoli leggermente sabbiosi o addirittura paludosi e costellati di acquitrini, non è attaccata se non di rado da malanni o parassiti, e matura in un tempo ristretto. Le massime coltivazioni della pianta sono attualmente in Russia ed Ucraina ma essa fa capolino, come da tradizione, nelle regioni austrogermaniche del Tirolo, della Carinzia o della Stiria, e poi nel Brandeburgo, in Polonia, nella Slovacchia. Da non obliare poi l’uso che della farina nera di questi acheni ne fanno i Bretoni per preparare le loro celebri crêpes e i biscotti galettes, cosa che credo deve supporre una coltivazione secondo tradizione della pianta pure in Francia. Non ho però ancora dettagliate notizie a quest’ultimo riguardo. Fuori d’Europa è in Cina, in Nepal, nel Bhutan che la pianta prospera e viene elevata a segno di culto. Essa cresce anche sugli alti rilievi dell’India che transitano gradatamente verso le regioni himalaiane, dove si stende negli ampi prati formando la bella tessitura delle nubi di color rosa intenso dei fiori intrecciato alle macchie d’un verde schiarentesi fino al giallo di steli e foglie. Non vorrei ingannarmi ma i declivi montani in rosa interrotti qua e là da alberi in fioritura primaverile di due quadri dipinti da Svjetoslav Roerich e intitolati per l’appunto alla primavera mi paiono adombrare queste distese di piante di fagopiro.

Accentuavo il pare nel dire dell’origine della pianta perché un germanista svizzero, allievo del professor Sonderegger, Franco Müller da Zurigo, una volta e senza che io avessi portato il discorso sull’argomento del quale è qui questione mi dava ex-abrupto la notizia che il termine di grano saraceno in uso nella nostra favella sia in realtà un termine non troppo preciso. Ora purtroppo non ricordo i termini esatti con i quali il colto germanista e nordista mi delucidava la cosa ma rammento che mi aveva fatto notare o che l’origine della pianta sia secondo studi più recenti indigena europea o che la diffusione di essa nei Balcani e nell’Oriente bisantino sia in realtà da ascrivere ai Vareghi scandinavi che l’avrebbero portata dalle loro sedi del nord continentale lungo i fiumi della Rus nel meridione greco, dal quale poi essa si sarebbe inoltrata in Italia. Donde il semplificativo nome in volgare. Semplificativo perché in esso non vi è indizio della priorità scandinava. Oltre non so dire, tuttavia come già avevo in parte anticipato, mi colpisce il fatto che l’ambiente bretone di Francia abbia come sua preparazione tradizionale appunto la base nella farina del fagopiro, da loro detta con termine assai esplicito farine de blé noir. So che le preparazioni alimentari variano assai nel tempo ma certe costanti possono essere individuate. Mi sembrerebbe strano che un ceto conservatore e attaccato alle tradizioni come quello delle popolazioni rurali e marine di Bretagna conoscesse ed avesse eletto a vivanda d’uso una preparazione che si suppone relativamente recente. Plausibilmente il XV secolo, dato dalla rivista austrogermanica come un tempo nel quale agricoltori delle Alpi Austriache coltivavano e usavano del fagopiro, è un dato accertato e si può immaginare con un poco di stiramento che pure da quel tempo esso sia diffuso nell’estremo occidente della penisola europea. Se però le suggestioni fornitemi dal germanista svizzero resistono al vaglio di studi ulteriori e si confermano non è impossibile credere all’arrivo della poligonacea in Bretagna pel tramite o dei vicini abitatori d’Oltremanica, dei quali sappiamo il lungo commercio intriso pure di scorrerie guerresche con i Vichinghi o di scambi diretti con i mercanti scandinavi all’epoca dell’invasione normanna. 

Se noi oggi associamo il buon fagopiro agli Slavi in virtù della Greschka, pure non va obliato che nelle Alpi orientali, dal Tirolo alle Caravanche esso è stato un alimento fondamentale per la nutrizione delle moltitudini che abitavano quelle impervie eppure bellissime regioni a noi limitrofe. Al fagopiro venne dato anche un nome locale: Hadn o Heiden o Schwarzplenten. Nello Jauntal della Carinzia il nome si modificava nel più semplice Heda. Si ritiene che questi nomi alludano alla provenienza della pianta da popoli non cristiani, Heidnisch, donde i derivati come Hadn o gli altri due citati, in tedesco vuol dire appunto “pagano”, Schwarzplenten, facilmente interpretabile come “pianta nera” o “dei neri” potrebbe sembrare addirittura un calco locale del nostro volgare grano saraceno con allusione ai popoli di colorito scuro del meridione, i saraceni. Queste derivazioni dei nomi locali austriaci della pianta sono quelle oggi accettate, pure se potrebbe esser possibile che in futuro mutino di direzione qualora nuovi fatti venissero portati in luce.

Intorno al 1600 nelle valli del Tirolo meridionale, e quindi in contiguità con le regioni venete, il Buchweizenschmarren, una specie di frittata a base o di farina o di pappa di fagopiro, era il piatto tradizionale di mezza giornata. Al mattino vi era invece un Mus di questo grano nero, una vera e propria pappa quale noi possiamo imitare se bolliamo a lungo gli acheni. A sera si dava una Suppe con una specie di gnocchetti sempre fatti con farina della nostra poligonacea. Questa sequenza delle portate si è conservata fino al tempo odierno in alcune case della val d’Isarco. Così almeno leggo sulle pagine dell’interessante opuscolo pure se non mi è stato ancora possibile di rintracciare una qualche ricetta più precisa che delucidi come effettivamente si usino, nelle località della valle che confluisce nel bacino dell’Adige, la farina o gli acheni della pianta. Per non dire di come essi vengano associati a qualche altra pietanza. Devo aggiungere che credo si tratti, almeno nel caso del Buchweizenschmarren d’una preparazione davvero rusticana perché il vocabolario tedesco indica per il termine Schmarren, esplicitamente con un segno di dispregiativo, la traduzione in “frittata” o “robaccia”. La cosa non ci deve però scandalizzare, a volte cibi rusticani appannaggio di abitanti di sperdute regioni di montagna possono trasformarsi in gustose vivande mentali. È così per il modesto castagnaccio, e può benissimo essere per questo Buchweizenschmarren; si tratta eventualmente di depurarlo di accoppiamenti troppo pesanti e, al meglio, di volgerlo in ricette latteo-vegetariane. Perfette e nutrienti con la robusta base fornita loro dal fagopiro, come avviene per la Greschka russa. Un interessante dato sul consumo è aggiunto dall’opuscolo con la consueta meticolosità austriaca, nel corso del 1800 si stima che l’abitante del Tirolo orientale usasse per la propria alimentazione un qualcosa come 22 chilogrammi di fagopiro all’anno. Dalla mia individuale esperienza posso dire che detta quantità è del tutto verosimile ma non estendibile al caso d’un regime completamente vegetariano che di quantità ne richiede quantomeno il doppio. Lo scritto fornisce poi una considerazione che reputo storicamente molto importante: nelle campagne di quelle regioni alpine la diffusione del grano, delle patate e della farina gialla si è affermata solo in tempi recentissimi, lungo l’ottocento e il novecento. Dunque fino a questo periodo le brave massaie austriache cucinavano focacce, semolini e gnocchi valendosi degli acheni della robusta poligonacea ridotti a farina più o meno fine.

Sono dilettevoli alcune notizie ulteriori sulla nostra rustica vivanda tratte dalla fatica e dalla bravura degli agricoltori. È nei primi di luglio che avviene la semina del fagopiro sui campi dopo che si era effettuata la raccolta della segale, il cereale robusto e resistente al freddo che sulle mense dell’Europa continentale, al Nord e poi nell’Est degli Slavi dà la materia prima per il pane che è la “prima arma” di sopravvivenza. Ciò avveniva ancora fino agli anni cinquanta del secolo passato nelle valli carinziane della Drava, della Gail e della Jaun, e pure nello Steinfeld e nella Stiria. Generazioni di agricoltori sono cresciute con il fagopiro quale alimento principale della mensa tanto che per esso vi è un termine specifico che ne designa la qualità di vivanda nazionale: Hadnsterz o semplicemente Sterz, parola che il vocabolario traduce direttamente con un esplicito “tritello di grano saraceno”. Se lo Sterz non è la Greschka, essendo il primo a base di farina grossa, la seconda costituita dagli acheni bolliti, pure l’effetto nel gusto e nell’accoppiamento con altre vivande soprattutto nel modo latteo-vegetariano non ha da essere così distante. Si legge poi, sull’opuscolo austriaco, che gli apicoltori stimavano alquanto le fioriture di fagopiro e tanto nelle campagne intorno la capitale musicale, alludo a Vienna, quanto spostandosi con le loro arnie nei campi della Stiria o sui declivi della Carinzia lasciavano volentieri fare ai loro sciami delle proficue scorribande nei campi ospitali alla poligonacea. Non ho notizia qui in Italia di mieli al fiore di fagopiro, ma dove in Valtellina, nel Trentino o nel Friuli orientale qualche campo è coltivato a fagopiro, non dovrebbe esser impossibile trovare qualche varietà di questo miele. 

Stando ai coloriti ricordi d’un anziano agricoltore della valle della Jaun, si sa dunque che la brava pianta si seminava ai primi di luglio, e la data migliore stava sul calendario come tre dì prima dell’Alexius, ovvero del giorno di Sant’Alessio che cade il 17 luglio. Per il Laurentius, il giorno di San Lorenzo, nel caldo 10 di agosto, si aveva la sorpresa di veder fiorire le piante e vestirsi dell’augurale manto roseo i campi. Ai primi d’ottobre sopravveniva la raccolta. Due ettari coltivati alla rustica poligonacea potevano dare nutrimento per un anno buono ad un focolare con quattro adulti e quattro fanciulli.   

Trebbiato il raccolto, le fiammelle minuscole rappresentate dagli acheni si macinavano alla meglio in casa, la farina veniva di poi setacciata e quanto restava di non usabile preparato come mangime. Per alcuni agricoltori era invece al mulino che si macinavano gli acheni. Nel primo caso dobbiamo vedere un uso della farina quasi solo per lo Sterz che come tritello dobbiamo immaginare a grana piuttosto grossa, nel secondo caso la necessità di avere farine più fini in vista della vendita del prodotto e della preparazione di piatti più elaborati in casa. Abbiamo da questi racconti qualche particolare utile sugli accoppiamenti del tritello di fagopiro in tavola. Il mattino per i fanciulli il tritello viene servito con latte caldo e, plausibilmente, è bollito direttamente nel latte. Per gli adulti lo si serve con del lardo fuso e degli sfilacci di speck. Condimento necessario qui è il latte acido, una preparazione a base di latte lievemente fermentato che la nostra cucina non contempla ma che è ben diffusa nei paesi germanici. Questa pietanza così rustica e robusta si addiceva a chi doveva faticare nei campi e saziava effettivamente fino al mezzodì. In un’altra ricetta, il tritello lo si mischiava a pane ammollato, tagli di carne di minor pregio, sangue, miglio e orzo bolliti e una mistura di aromi quali pepe, maggiorana, chiodi di garofano tritati in polvere e sale, e lo si serviva con del pane. Dalla descrizione tedesca mi sembra si tratti d’una specie di minestra, una Suppe, asciutta, ovvero con pochissimo liquido. Un piatto rozzo e certo cui non si addice troppo la qualità di vivanda mentale, pure se molto nutriente e forse anche gustoso se è servito su di una bella tavola imbandita d’inverno e quando si è stati per ore fuori di casa all’addiaccio.

Ma anche per il povero Sterz come ad altra latitudine per il povero e nobile castagnaccio doveva arrivare una spinta verso i margini dell’uso in cucina. Mi è capitato poco tempo addietro di domandare ad una donna austriaca con figlia e nipote se avesse mai assaggiato o cucinato lo Sterz ma ne ricevevo una risposta negativa con un atteggiamento volutamente distante da questa vivanda. La donna lo conosceva bene, anche perché lei stessa aveva la madre che da fanciulla era stata dedita al lavoro nei campi, ma nella breve conversazione avuta mi è parso di intuire che a questo tritello fosse legato anche il ricordo di tempi modesti e di dure difficoltà per la sopravvivenza. E la cosa si conferma con la notizia storica che in effetti, nel decennio tra il 1930 e il 1940 si cercò di diffondere fra gli agricoltori di quelle lande coltivate a Buchweizen le varietà più recenti e più redditizie della segale. E le promesse si confermarono perché i raccolti di segale dei nuovi tipi erano abbondanti e pur essendo il tempo di maturazione del cereale più lungo da non permetter la semina intermedia di luglio del fagopiro, pure si osservò che il cambio era conveniente e di qui anche nella valle più legata alla tradizione della pianta poligonacea, lo Jauntal, la sua coltivazione cominciò inesorabilmente a diminuire. Si chiudeva così una stagione dell’agricoltura alpina durata vari secoli.  


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