L'intervista

Luigi Iannone:lo spirito del nostro tempo è il monoteismo del mercato, abbiamo bisogno di un'economia dal volto umano

Priorità:salvaguardia dell’ambiente, cura del patrimonio artistico, memoria dei popoli, difesa della lingua, lotta alle forme esasperate di flessibilità e precarietà del lavoro, una vita meno incentrata sull’idea del successo personale

di Marco Di Eugenio

Luigi Iannone:lo spirito del nostro tempo è il monoteismo del mercato, abbiamo bisogno di un'economia dal volto umano

Luigi Iannone

Luigi Iannone è uno degli osservatori più attenti e originali del panorama culturale italiano. Firma di diversi quotidiani, riviste filosofiche e culturali, ha scritto diversi saggi dove (cosa non sempre scontata) alla profonda analisi delle questioni trattate corrisponde una facilità di lettura. Tra gli ultimi scritti di Iannone, vanno ricordati Manifesto antimoderno, con un’introduzione di Marcello Veneziani (Rubettino, Soveria Mannelli, 2010); Il suicidio dell’Occidente, libro intervista a Roger Scruton (Le lettere, Firenze 2010), il Profumo del nichilismo, con saggio introduttivo di Alain de Benoist (Solfanelli, Chieti 2012) e Sull’inutilità della destra (Solfanelli, Chieti 2014).

A Iannone, proprio partendo da alcuni spunti forniti dai suoi saggi, abbiamo chiesto di politica, economia, religione e altro ancora.

Con Renzi in particolare, almeno in campo politico, sembrano essere saltate definitivamente le categorie di destra e sinistra. Le chiedo se è d’accordo e se ha senso ancora oggi fare questa distinzione?

Destra e sinistra sono utili per definire la geografia parlamentare, ma gli ipotetici due gruppi potremmo definirli bianchi e rossi, neri e gialli. In realtà, Renzi ha solo reso visibile a tutti, ciò che era nei fatti da tempo, sia nel lessico politico che nella sostanza: il monoteismo del mercato rappresenta lo spirito del nostro tempo. Per tutti.

I Diritti civili, lei sostiene, rappresentano “la battaglia della sinistra”. Cosa ne pensa dell’ultima vicenda legata al riconoscimento dei matrimoni omo? E cosa risponde a chi (anche a destra e dintorni) argomenta che la politica deve prendere atto dei costumi che cambiano e che il loro riconoscimento non lede nessuno, limitandosi solamente ad allargare diritti esistenti?

Più che “la battaglia della sinistra”, a me pare “l’unica battaglia”. Lo dimostrano le manifestazioni di questi giorni. A fronte di folle di disperati che vanno in piazza perché hanno perso il lavoro e lamentano una condizione angosciante per se stessi e per le loro famiglie, le cronache ci raccontano di sindaci intenti a ‘regolarizzare’ coppie omosex e parlamentari alle prese con la parità di genere in Iran.

Potrei anche dire la mia sull’argomento, segnalando che noi abbiamo il dovere di occuparci delle nuove forme di convivenza presenti in numero sempre maggiore nella società moderna, ma che naturalmente il matrimonio è tra un uomo e una donna. Tuttavia, se vogliamo essere realistici, dobbiamo confessare che tale questione rimarrà insoluta ancora per poco tempo. La mia è ovviamente una riflessione da cittadino e non da politico. Tutti i Paesi europei hanno forme più o meno spinte di matrimoni tra persone dello stesso sesso. E destre e sinistre, anche su questo, non si sono differenziate a riprova che queste categorie sono oramai mutate geneticamente. L’Italia non farà eccezione. E su questi temi, una volta fatto il primo passo, non si torna indietro.

Nella crisi valoriale e sociale che vive l’Occidente è più responsabile il materialismo-capitalistico o quello del ’68, a sua volta figlio dell’ondata lunga partita dell’Illuminismo?

Il’68 rientra nella categoria degli epifenomeni. Ha mostrato in superficie ciò che si agitava da tempo in profondità. L’illuminismo ne è stata la matrice ideologica. E nonostante tutte le repulsioni e rifiuti che possiamo rivolgere verso di esso, noi siamo un prodotto dell’Illuminismo. Questa cosa non è che mi entusiasmi più di tanto, ma è così.

Alla destra italiana, nel suo ultimo saggio Sull’inutilità della destra, rimprovera di aver perso la dimensione comunitaria per abbracciarne una legata esclusivamente all’economia: crede che queste due espressioni della destra possano convivere un partito o movimento di destra o oppure sono piuttosto inconciliabili?

La destra ha fallito la sua storica occasione. Ha governato un ventennio, a tutti i livelli, nazionali, regionali e locali, senza minimamente incidere e soprattutto senza una strategia complessiva di azione.

Proprio per ciò, è impensabile che, almeno in questa fase, siano i partiti a tirarci fuori dalla logica del declino. Almeno quelli che ci sono ora in giro. Dobbiamo, per quanto possibile ed è nelle nostre forze, fare bene ciò che ci compete nel nostro ambito.

Sempre nel saggio Sull’inutilità della destra lei (ri)propone un modello di economia sociale. In poche righe, potrebbe spiegare a chi non lo ha ancora letto cos’è e perché adottarlo?

Più che proporlo, vorrei sommessamente rammentarlo ai tanti che, soprattutto a destra, lo citavano ad ogni piè sospinto. Peraltro non è una idea di destra o di sinistra perchè un tempo l’economia sociale veniva individuata addirittura come la terza via. Ne parla esplicitamente l’art. 46 della nostra Costituzione; ma è in realtà il modello cui fanno esplicito riferimento molte encicliche papali ed è quello adottato in Germania.

E poi, visto che non c’è un modello totalmente alternativo a quello capitalistico-finanziario che tanti danni sta facendo, potrebbe rappresentarne una correzione; una forma fortemente temperata in grado di tenere insieme le esigenze del mercato e della concorrenza con i necessari riequilibri sociali.

Insomma, una economia dal volto umano, che dia priorità alle persone ancor prima che alle merci, agli oggetti prodotti o agli indici azionari.

Oltre quello appena citato, suggerisce altri punti di rilancio di un progetto politico autenticamente di destra. Tra questi la riscoperta di un dimensione comunitaria…

Ormai mi importa poco se un progetto politico sia definibile di destra o di sinistra. Vi sono talune priorità rispetto alle quali quanto più il fronte di adesione si allarga, meglio è per tutti. Alcuni temi ritengo siano irrinunciabili come la salvaguardia dell’ambiente, la cura del patrimonio artistico, la memoria dei popoli, la difesa della lingua, la lotta alle forme sempre più esasperate di flessibilità e precarietà del lavoro, una vita meno incentrata sull’idea del successo personale e più attenta ad aspetti solidaristici, una idea meno materialistica della vita, e via dicendo.

Ma questi sono solo alcuni dei punti sui quali dovremmo impegnarci con maggior vigore. E visto quanto sia pervasiva la globalizzazione in ogni ambito privato o collettivo, ritengo che non debbano più essere temi cari ad una parte piuttosto che ad un’altra.

Passiamo alle questioni internazionali: che idea si è fatto relativamente alle guerre in Siria e in altre zone “calde” del pianeta? È in atto uno scontro di civiltà tra l’Islam e quella nostra?

Sono domande enormi che non possono avere un’unica risposta ed anche risolutiva. Vi sono però delle concause che hanno contribuito a peggiorare il quadro complessivo e che tento di sintetizzare: 1) Innanzitutto, è evidente che gli Usa non sono più centrali nello scenario geopolitico mondiale, o almeno non lo sono nella stessa intensità di qualche anno fa; 2) A ciò si aggiunge il fatto che, in politica estera, Obama ha un approccio molto ‘più prudente’ dei suoi predecessori. Non giudico se sia positivo o negativo, ma è un fatto; 3) In molte aree di crisi vi sono anche storiche responsabilità occidentali e ciò pesa nelle relazioni diplomatiche; 4) L’Europa non sa assumersi il suo carico di responsabilità e ciò la pone sempre al rimorchio della Nato, degli Usa, eccetera; 5) L’Islam non ha una struttura gerarchica. Ha uno schema rizomatico e quindi la follia terroristica è libera di praticare violenze senza che nessun freno morale o legislativo gli venga imposto dalla sua stessa parte, cioè dai musulmani; 6) Nel momento in cui i terroristi spostano le loro ‘attenzioni’ in territorio europeo o ledono nostri interessi economici nel mondo oppure seviziano, torturano o uccidono nostri connazionali la risposta deve essere durissima.

La domanda precedente ci porta inevitabilmente alla questione immigrazione e, in particolare, all’operazione Mare Nostrum. Anche lei la ritiene fallimentare? E di chi è la colpa?

Questi sono fenomeni epocali tendenzialmente in crescita. Finché questo modello di sviluppo inasprisce le differenze tra Paesi ricchi e Paesi poveri, la situazione non è destinata a cambiare. Tuttavia, al di là di una propaganda politica che a destra così come a sinistra, li cavalca per questioni di mero consenso elettorale, ci sono effettivamente limiti non superabili. E’ inutile ripetere che abbiamo un dovere umanitario perché, appunto, ci sono limiti oltre i quali c’è il caos. Basterebbe più chiarezza senza infingimenti di carattere morale o moralistico. Nessuno vuole adottare gli stessi metodi di taluni Paesi che si dichiarano democratici e liberali e poi ‘mitragliano’ questi poveri disperati lasciandoli affogare nel Mediterraneo ma la solidarietà va sempre correlata alle realtà complesse del Paese ospitante. Se ciò non accade lo Stato diventa una associazione che fa attività caritatevoli dal puro sapore ecumenico. 

Il fallimento delle politiche immigratorie chiama inevitabilmente in causa l’Ue. La destra storicamente è sempre stata europeista: cos’è che non va invece nel progetto attuale dell’UE. È sbagliato alla radice o può essere corretto?

Tutto può essere corretto ma bisogna sapere in quanto tempo e sacrificando quante generazioni. L’Europa è nata male e cresce peggio. Si dilaniò sulla questione delle ‘radici cristiane’, è governata da burocrati non eletti, detta parametri di bilancio con un taglio ragionieristico senza tener conto delle madri, dei padri e dei figli su cui quelle condizioni ricadranno. E poi non ha una visione strategica. Un giorno dialoghiamo con Putin e quello dopo gli rifiliamo le sanzioni, accogliamo Gheddafi in tutte le cancellerie europee e poi lo bombardiamo, siamo inflessibili con chi in Europa ha conti traballanti e supini verso la Cina che ci inonda di robacce varie e che con il suo irrilevante costo del lavoro altera il mercato della concorrenza e mette in ginocchio le nostre imprese e i nostri posti di lavoro ….e potremmo continuare per ore.

Viviamo tempi difficili, sempre più privi di riferimenti. Persino la Chiesa sembra risentirne. Sul Sinodo come si schiera? La Chiesa deve rincorrere la modernità oppure no?

La Chiesa è l’unica istituzione che - come scriveva Prezzolini - dura ininterrottamente da duemila anni. E ciò vorrà pur dire qualcosa. Tuttavia, è fatta di persone in carne ed ossa. E proprio in quanto umana risente delle spinte modernizzatrici. Il solo fatto che, per esempio, con sempre più frequenza rispetto al recente passato, le alte sfere del clero si interroghino su temi moderni segnala da una parte una giusta e doverosa attenzione verso il mondo che cambia ma dall’altra un pertugio in cui tutto, prima o poi, penetrerà.

Nel suo penultimo libro, Il profumo del nichilismo, mi ha molto colpito una analisi: viviamo in una società che promuove libertà e diritti civili, ma al tempo stesso è iperregolata. Viviamo dunque in una società orwelliana?

In quel libro ho detto che noi viviamo il tempo delle libertà. Non c’è nessuna epoca dove ci sia stata tanta attenzione per il progresso civile e i diritti. Eppure per garantire quelle libertà moltiplichiamo per esempio la produzione legislativa che in quanto tale limita le libertà. Basterebbe soffermarsi sulle amenità di talune ordinanze comunali (non si beve birra in strada; in spiaggia non si fanno castelli sabbia; non si raccolgono conchiglie sulla battigia; non si possono nutrire gatti randagi; non si fuma nei parchi all’aperto; agli allenatori di calcio è vietato fumare durante la partita; eccetera) per fare il conto delle cose che non si possono fare. Ma questa è la parte visibile e meno rilevante del problema.

Pensiamo, invece, e solo per un attimo, a tutti gli aggeggi tecnologici in grado di farci massimizzare tempi e spazi. Sono certamente utili, necessari e oramai insostituibili per il lavoro e nelle relazioni sociali ma al contempo anche strumenti che mettono in serio pericolo la privacy come mai era accaduto nella storia.

Uno studio recentemente ha evidenziato che un italiano su due non legge neanche un libro l’anno: ritiene che sia un dato legato a quel carattere “economico” della nostra società cui abbiamo detto sopra o è banalmente legato alla crisi e alla minor disponibilità di soldi?

In Italia non si è mai letto molto. Se però dovessimo spendere dei soldi per rinfoltire le nostre librerie con le ‘fatiche letterarie’ dei vari Fabio Volo, Daria Bignardi, e tutto il carrozzone radical-chic così come ci viene segnalato settimanalmente dalle classifiche di vendita, allora è meglio lasciar stare.

Io ho fatto una scelta molto banale. Visto che non basta una sola vita per leggere tutti i classici, dai Greci fino a Thomas Mann, dalla letteratura latina fino a Cioran o Musil, rinuncio – tranne in casi particolari – a comprare libri pompati dal carrozzone massmediatico e mi attengo all’usato sicuro. Non riuscirò a leggerli tutti ma almeno so di non sperperare soldi.

C’è un libro che le ha cambiato la vita o, comunque, il modo di pensare?

In ogni epoca della vita c’è un libro decisivo. Da ragazzino ci fu un periodo molto strano in cui leggevo nello stesso periodo alcuni libri di Julius Evola e I dolori del giovane Werther di Goethe. Ma è una scelta che oggi mi appare meno schizofrenica. Adesso, sempre in contemporanea, sto rileggendo Kafka (La metamorfosi) e Ibsen (Spettri). E forse anche quest’altra connessione la comprenderò tra qualche anno.

Ma il primo che ho letto e riletto è stato Viaggio al termine della notte di Celine.

In una classifica, tre scrittori o intellettuali preferiti?

Devo fare uno sforzo estremo di sintesi. Ernst Jünger è quello che mi accompagna da più tempo. Ma vagando anche per altri campi direi, Dostoevskij e il regista Ingmar Bergman.

Per concludere: il suo prossimo saggio è in cantiere? Di cosa parlerà?

Sono due. Entrambi finiti. Il primo è su Jünger ma non è celebrativo. Lo sto curando da quasi due anni ed è composto da 28 saggi scritti da saggisti con provenienze culturali e sensibilità diverse, e che perciò offrono giudizi diametralmente opposti. L’altro è sulla questione della tecnica.

(Intervista in collaborazione con Maria Cerasi e Emanuele Ricucci) 

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