I cambiamenti economici-politici

La Destra tradizionale tra mito e storia

Francesco Germinario riapre un dibattito essenziale

di Giovanni Sessa

La Destra tradizionale tra mito e storia

La copertina del libro

Le culture oppositive nei confronti del sistema vigente, negli ultimi anni sono drammaticamente state costrette a confrontarsi con il quesito leninista: Che fare? I cambiamenti economici-politici in atto che attraversano le liberal-democrazie e, progressivamente, le stanno modificando in apparati amministrativi legati alla govenance transnazionale, forma politica della mega macchina della globalizzazione, impongono una risposta al pressante interrogativo. Prime tra tutte, alla domanda del leader della Rivoluzione d’Ottobre, dovrebbero cercare di rispondere le culture politiche che con il capital-marxismo hanno poco da spartire. Innanzitutto, le famiglie politiche che, nel loro agire, si richiamano al pensiero di Tradizione. In tal senso, un input significativo all’apertura del dibattito può trarsi dalle pagine di un recente libro di Francesco Germinario, studioso che da anni si occupa di destra radicale, della filosofia di Evola, di de Benoist. Ci riferiamo a Tradizione Mito e Storia. La cultura politica della destra radicale e i suoi teorici, nelle librerie per i tipi di Carocci editore (per ordini: 06/42818417; euro 18,00).

   Nel testo, l’autore utilizza ampia documentazione a sostegno delle tesi storiografico-interpretative di cui si fa latore, utilizzando un registro linguistico capace di coinvolgere tanto l’abituale lettore di testi storiografici, quanto il neofita. La tesi essenziale da cui muove è relativa alle differenze teoriche che distanzierebbero la destra rivoluzionaria europea di fine ottocento dai fascismi e, soprattutto, dal radicalismo di destra affermatosi successivamente alla tragica sconfitta del 1945. Infatti, con quest’ultima espressione, si deve intendere: “…una posizione teorico politica che si caratterizza per il rifiuto totale della modernità” (p. 13). Mentre la destra di fine ottocento aveva in sé una componente ideologica discendente in linea diretta dalla sinistra rivoluzionaria, accompagnata da una chiara prassi populista, entrambe presenti, peraltro, nell’idea di uomo nuovo e nelle tendenze ideologicamente ossimoriche dei fascismi (Rivoluzione Conservatrice, superamento dell’assialità destra/sinistra), il radicalismo di destra ha: “…quasi sempre scelto una strategia autoreferenziale, talvolta anche di testimonianza, e una posizione minoritaria e periferica” (p. 14). Tale scelta avrebbe indotto, sul piano pratico-organizzativo, conseguenze inevitabili: il rifiuto della forma-partito che ha connotato di sé tutte le formazioni politiche che hanno agito nell’area, l’incapacità e/o la non volontà di individuare un soggetto rivoluzionario in grado di modificare lo stato delle cose, e la forte accentuazione dell’interesse antropologico, sia nell’elaborazione teorica che nella prassi.

   I gruppi di destra radicale avrebbero ritenuto idonei a rappresentare la loro visione del mondo forme “calde” di aggregazione umana, legate all’idea di Gemeinschaft, di Comunità, o di Ordnung, di Ordine. Per questo guardarono con estremo interesse ai fascismi minoritari, trovando modelli organizzativi di riferimento nella Falange di José Antonio Primo de Rivera o nella Guardia di Ferro di Codreanu. Ciò: “…in quanto la forma partito risultava mortificante per la vocazione delle aristocrazie a dominare incontrastate il palcoscenico della Storia” (p. 39). Del resto, ricorda Germinario, destra significa essenzialmente inquadrare gli individui in comunità naturali, rassicuranti, in opposizione alla modernità atomizzante e omologante. La cosa è stata colta anche dal pensiero politico sionista, ad esempio da Martin Buber, quando scrisse: “Il movimento di un popolo è il divenire fecondo di un popolo” (p. 43). A ciò, con le loro strutture “comunitarie”, tesero i militanti della destra radicale. La mancanza di una teoria del soggetto rivoluzionario in questi gruppi sarebbe da ascriversi, a giudizio della studioso, all’egemonia culturale esercitata su di essi dall’intellettuale di maggior prestigio dell’area, Julius Evola, il cui pensiero è centrato nella idea della Tradizione come totalmente altro dalla Storia.

   A questo punto della narrazione, Germinario discute, dedicando alla disamina un intero capitolo,   il contributo di Evola all’elaborazione teorica dell’area, per poi passare, nei successivi capitoli, all’analisi della revisione dell’evolismo, a suo dire messa in atto da Giorgio Franco Freda e da Giorgio Locchi. Cominciamo facendo rilevare ciò che abbiamo apprezzato della esegesi del pensiero di Evola: facciamo nostra tanto la definizione di Evola come pensatore totus politicus, quanto il fatto che il cuore vitale della sua speculazione sia individuato nella riproposizione dell’antropologia della Tradizione. A differenza di Germinario riteniamo che in ciò vada colta l’originalità evoliana, che non può essere ridotta a mito politicamente incapacitante. Ci pare, infatti, che lo storico delle idee sia tratto in inganno nel rintracciare i momenti salienti della produzione evoliana: “…il primo consiste nel periodo fra la metà degli anni trenta…e i primi anni della guerra…il secondo periodo è compreso in poco più di un decennio, fra il 1950 e il 1961” (p. 56). In questo modo viene tagliata la fase, a nostro parere più significativa del percorso evoliano: quella filosofica ed artistica, i cui esiti non sono tenuti in alcun conto da Germinario. Ecco, pertanto, che il testo Orientamenti, pur importante, viene presentato quale snodo teorico della destra radicale.

    In esso, Evola avrebbe preso le distanze dal neofascismo e dalle scorie socialisteggianti post R.S.I. che lo caratterizzavano nel primo dopoguerra, in quanto la destra di matrice tradizionale avrebbe dovuto conseguire un’autosufficienza teorico-politica. Essa sarebbe stata conquistata a condizione che gli uomini tra le rovine, ai quali il pensatore romano si rivolgeva, si fossero lasciati alle spalle qualsiasi suggestione storicista. Infatti: “La Tradizione non aveva storia, nel senso che all’interno del suo panorama non era possibile stabilire un prima e un dopo, determinando appunto la sua storia…la Storia medesima non poteva essere altro che un rovinoso processo di decadenza…per salvarsi…non ci si poteva che situare fuori dal perimetro della Storia” (pp. 66-67). Il tradizionalista invitava i suoi seguaci ad immunizzarsi dal divenire storico. In ciò, la sua idea di Tradizione risulterebbe essere altra da quella statuita dal pensiero controrivoluzionario propriamente detto. In Burke, in de Maistre, la Storia coincide con la Tradizione, è il luogo della sua trasmissione effettiva. Non così in Evola: per questo a parere di Germinario la sua posizione è eminentemente difensiva, una sorta di elogio della nobiltà della sconfitta: “…tale concezione incentrata sul conflitto Storia-Tradizione era chiamata a svolgere una funzione consolatoria” (p. 71). Il che spiegherebbe la posizione critica di Evola nei confronti di Gentile, accusato di essere un filosofo della dialettica e del divenire della Storia.

    Quindi, se la Tradizione poteva essere solo testimoniata e si rinunciava a un suo inverarsi storico-politico: “…l’unica soluzione possibile rimaneva quella antropologica, ossia il coltivare la differenza umana da parte di coloro che avevano intuito o realizzato i Valori della Tradizione” (p. 83). Come farlo? Lasciandosi alle spalle l’individualismo liberale, e facendo vivere in sé la trascendenza immanente: così sarebbe stato possibile divenire, oltre l’individuo, “persona”. Solo  la “persona”, l’uomo differenziato della nostra epoca, avrebbe potuto custodire la “civiltà dell’essere” di contro alla caduta libera nel divenire. Se l’esito cui avrebbe condotto l’evolismo era l’apolitìa, la posizione tradizionalista non avrebbe potuto che condurre allo scacco politico, all’impossibilità di agire concretamente sulla modernità.

   Di ciò si sarebbero resi conto, per vie diverse, due teorici della destra radicale, Freda e Locchi. Il primo, nel volume Disintegrazione del sistema avrebbe individuato il soggetto rivoluzionario cui affidare il compito delle riaffermazione tradizionale, il soldato politico. Questi, conscio della decadenza senza freni dell’Europa borghese, in nome dell’ideale platonico del comunismo aristocratico, avrebbe dovuto individuare “compagni” di strada nelle forze rivoluzionarie e non allineate del Terzo Mondo: dai guerriglieri palestinesi, ai maoisti. Si trattava di restituire concretamente ad Evola la sua vocazione politica, e alla Tradizione il suo “luogo” nella Storia. Così non fu. Il movimentismo gauchista rimase profondamente antifascista e, in termini esistenziali, funzionale alle logiche globalizzanti. Questo, in fondo, fu l’esito del Sessantotto sul quale, non casualmente, Evola fu assai critico non certo per ragioni di mero conservatorismo.

   Locchi, invece, dapprima all’interno dell’opera di revisione teorica prodotta dalla Nouvelle Droite, poi in solitudine, si interrogò sui rapporti Storia-Tradizione, forse più di qualsiasi altro pensatore d’area. Attraverso una rilettura critica delle posizioni nietzschiane, pensò la Storia come “apertura”, più in particolare come il luogo nel quale si fa la libertà dell’uomo. In tale visione è da individuarsi, a suo dire, una delle ragioni più profonde per opporsi alla concezione ebraico-cristiana del mondo, che considera la Storia una “valle di lacrime”, in cui l’uomo è entrato attraverso il peccato e da cui uscirà attraverso il giudizio finale. Una logica estranea alla libertà umana. Si trattava e si tratta, a nostro giudizio, di aprirsi un varco in siffatta visione lineare della storia,   centrata sul profetismo messianico che imprigiona l’agire in uno schema deterministico. Per cui è possibile asserire che Locchi non rifiutasse sic et simpliciter il divenire, ma il divenire predefinito messianicamente le cui posizioni epigonali si erano espresse nelle moderne filosofie della storia e del progresso. In conclusione, così Germinario riassume la posizione di Locchi: “Nella visione monoteistica l’uomo si lasciava costruire dalla prassi divina della Storia…nella visione pagana, comune agli indoeuropei,…la Storia diveniva il farsi dell’uomo, e siccome il farsi dell’uomo era all’insegna della libertà…la Storia era appunto aperta, divenendo la Storia della libertà umana” (p. 150).  Entro questa cornice intellettuale, lo studioso lesse i fascismi, ben al di là delle particolari condizioni storiche che li determinarono (De Felice), sul lungo periodo, come reazione continentale mirata ad invertire la: “…corrente della storia occidentale” (p. 175). I padri spirituali di questa reazione furono Wagner e  Nietzsche, l’ ideale di riferimento il sovraumanesimo. Un tentativo di controstoricizzare i fascismi, o meglio di liberare dall’idea di passato irripetibile l’esperienza, prima di tutto esistenziale e politica, che tali movimenti avevano rappresentato.

   A noi pare che tutto ciò non sia stato pensato contro Evola o al di làdi Evola. Anzi! Siamo da sempre convinti che il tradizionalista, in quanto filosofo dell’Origine, abbia della Tradizione, a differenza di Guénon, sul quale le sue posizioni sono spesso ingiustamente appiattite, un’idea dinamica e non semplicemente statica e contemplativa. Anche nella fase propriamente tradizionalista della propria speculazione, egli chiarì (Il Mistero del Graal) che il metodo tradizionale consiste nel rintracciare le intersezioni di storia e sovrastoria, di natura e sovranatura. Inoltre, il tema della Libertà-Potenza centrale nelle opere filosofiche, per certi aspetti di impianto schellinghiano, induce a pensare l’Origine come il sempre possibile. Sta all’uomo, tenuto pur conto dei tempi ciclici, delle condizioni effettive di un’epoca, agire per far sì che l’Origine si faccia Evento, diventi mondo. Del resto, l’indefesso attivismo politico-culturale di Evola testimonia della sua natura non rassegnata e virile. Certo l’interesse antropologico è in lui centrale. Ogni sua pagina ribadisce l’essenzialità dell’egemonikon, baluardo non solo difensivo nei confronti del disordine moderno, luogo della custodia, ma centro al quale far riferimento per agire positivamente nel mondo, anche in termini politici. Evola in Cavalcare non è affatto l’uomo sublime che Canetti definisce “sacerdote che basta a se stesso” (p. 94), ma uomo che si interroga sul senso della vita e del mondo in cui si trovava assieme ai suoi simili. Filosofia dei pochi sicuramente la sua, ma anche filosofia dell’ordine, filosofia per la Città e della responsabilità. Egli davvero, coerente platonico (pur senza platonismo), convinto fino all’ultimo giorno di vita che l’uomo dall’animo ordinato, l’uomo noetico, fosse la cellula imprescindibile per costruire la Città giusta. Questi è diffusore del vero e latore dell’utopia classica e tradizionale che, in quanto fondata sulla “persona”, èsempre transitabile, a differenza di quanto sostenne Cacciari in un saggio, comunque memorabile, che accompagnava La Torre di Hofmannsthal.

  Riteniamo, sulla scorta di quanto detto, oltre ogni letteralismo e scolastica riduttiva, Evola essere uno dei pensatori europei del Nuovo Inizio. In conclusione, non sia tratto in inganno il lettore, i distinguo che abbiamo avanzato rispetto alle posizioni di Germinario, non inficiano il giudizio complessivamente positivo che del suo lavoro è possibile dare. Al di là della documentata organicità del testo e della ricercata oggettività argomentativa, rara in studi che abbiano come oggetto Evola e la destra radicale, queste pagine hanno l’indubbio merito di porre l’accento sul tema della fine della storia che, allo stato attuale delle cose, non può più essere eluso da alcuno, qualunque sia la sua appartenenza ideale. 

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