Editoriale

La Grande Guerra che ci fece grandi e le grosse ignobili guerre che ci minacciano

Non è vero che le guerre sono tutte uguali, dopo il '18 l'imbarbarimento ha preso il posto di certa tremenda grandezza

Giuseppe del Ninno

di Giuseppe del Ninno

n questa anomala estate temporalesca, mentre le residue truppe di vacanzieri tentano di opporsi alla crisi persistente nell’arduo, affollato relax di mari e monti e gli occupanti delle città combattono con gli aumentati disservizi, sullo scenario internazionale venti di guerra vera spingono echi di crudeltà e di sofferenza verso i nostri lidi torpidi. Libia, Siria, Iraq, Striscia di Gaza, Ucraina riportano alla ribalta dell’attualità le celebrazioni della Grande Guerra, che accese i suoi focolai cento anni fa, in un’estate ben diversamente infuocata.

Io stesso, in uno dei ricorrenti soggiorni in Alto Adige, culla della famiglia materna di mia moglie, ho visitato una mostra fotografica della microstoria di  Campo Tures – Sand in Taufers, nel bilinguismo di legge in vigore lassù – capitale della Valle Aurina, che fu tra i centri dell’irredentismo tirolese a base di bombe ai tralicci elettrici negli anni 60 del 900. Anche qui, in un’arcadia montuosa, mi sono imbattuto in echi di quella Grande Guerra, fotografata, stavolta, dalla parte del “nemico” di allora. 

Come nelle pagine di Emmanuel Le Roy Ladurie, nella sua storia di Montaillou, villaggio occitano, attraverso le scene di vita quotidiana, ho ripercorso la storia di generazioni, nelle occasioni di festa collettiva – ad esempio, l’inaugurazione di una linea ferroviaria o l’ordinazione di un sacerdote – di lavoro quotidiano, ma anche di sforzo collettivo, soprattutto in occasione della guerra. Il patriottismo asburgico – ancora molto presente, soprattutto nei ritratti di Francesco Giuseppe, appesi in tanti hotel e in tante malghe – appare in quelle foto in bianco e nero nella sobrietà e nella “normalità” che può arrivare, senza enfasi, al sacrificio della vita. 

Mi sono soffermato su quei volti austeri che sembrano intagliati nel legno del larice e del cirmolo, su quegli abiti tradizionali o su quelli  dei giorni di lavoro, sulle uniformi militari che si intuiscono di stoffa ruvida, su quei carri carichi di fieno e su quelle tradotte cariche di giovani diretti al fronte, pensando che fra di essi forse c’erano anche quelli che avrebbero sparato addosso ai miei nonni. Del resto, la morte sul campo di battaglia si è intrecciata, per tutti gli europei di quell’epoca, con la fine della vita nel letto di casa, col conforto dell’affetto dei familiari e dei sacramenti. Insomma, la morte era una presenza dolorosa eppure domestica, proprio come i sentimenti di religiosità, di fedeltà alla Dinastia, di onore e di amore per la patria e per la famiglia, di dedizione al lavoro, per umile che fosse.

Sto parlando di due sole generazioni prima della mia, dei nonni di mia moglie e miei, e del loro modo di stare al mondo, fino al limite estremo del loro cammino terreno. E si tratta di realtà che si colgono molto meglio in un piccolo centro, dove il cimitero è a due passi dalle case. In quello di Campo  Tures, ad esempio, torno sempre a leggere, sulle lapidi affisse lungo una delle mura di cinta, i nomi dei caduti nelle tre guerre che hanno coinvolto quella gente: la campagna antinapoleonica del 1809, la Grande Guerra, il secondo conflitto mondiale. In tutte e tre, la famiglia di mia moglie, gli Auer, ha dato il suo contributo di giovani vite.

D’altra parte, anche la mia famiglia ha avuto i suoi protagonisti discreti della storia, in particolare in quelle “tempeste d’acciaio” descritte da Ernst Junger e deplorate da Céline. Penso a mio nonno materno, al sottotenente Francesco Manlio Conte, che visse e raccontò col più  britannico understatement la sua partecipazione alla Grande Guerra. Già padre di famiglia e impiegato al Comune di Napoli, partì per il fronte all’età di 29 anni e, come sottotenente di fanteria, guidò sette assalti alla baionetta nelle battaglie dell’Isonzo; rischiò la Corte marziale, per essersi rifiutato di sparare ad un commilitone in preda al panico, disobbedendo così agli ordini del suo capitano; restò ferito nell’ultimo dei suoi assalti e rimase col femore spezzato, sotto una catasta di caduti di entrambe le parti, per poi essere recuperato e rispedito a casa, dopo una lunga degenza in un ospedale militare, con una medaglia di bronzo e nessuna pensione di guerra, del resto mai sollecitata. Storie di ordinario coraggio, nell’esercizio del proprio dovere.

Se pensiamo a cosa è oggi la guerra per la mia generazione e per quelle successive – un puro e semplice orrore – e a come la guerra continui a bussare alle porte di casa nostra, non possiamo che constatare una ormai consolidata mutazione genetica e, al tempo stesso, culturale. Tra i pochi opinionisti controcorrente, sia pure da posizioni diverse, Massimo Fini ed Ernesto Galli della Loggia ne hanno parlato di recente, individuando, fra gli altri fattori del declino politico, economico e morale degli Italiani e degli Europei in generale,  proprio questo atteggiamento verso la guerra.

Oggi, i regolamenti di conti fra Nazioni e la lotta per l’egemonia si perseguono ricorrendo agli strumenti della finanza e del commercio: si decretano sanzioni ed embargo, si manovrano le leve monetarie, si esercitano pressioni centellinando o bloccando finanziamenti e forniture energetiche e così via. Se proprio si deve arrivare alla extrema ratio dell’opzione militare, ci si fa forti della superiorità aerea, evitando ogni intervento di fanterie sul terreno e, ancora meglio, utilizzando i droni, aerei senza piloti. In ogni caso, si lasciano ad altri popoli – quelli meno infiacchiti dalla prosperità, meno disponibili alla sofferenza e alla morte, più sensibili alla tutela delle tradizioni patrie o di clan o di fedi religiose – le incombenze cruente che comporta la guerra vera, quella “antica festa crudele”, come ebbe a definirla Franco Cardini.

Giorni fa, Niall Ferguson coglieva inquietanti analogie fra i prodromi della Grande Guerra e taluni sviluppi delle crisi belliche in atto; il fatto è che, parafrasando il motto post-sessantottino secondo il quale “puoi  non occuparti della politica, tanto la politica si occuperà di te”, anche nel caso della guerra (e della morte...), rimuoverla non basterà a scongiurarla: ci sarà sempre qualcuno pronto a portartela in casa.

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