Editoriale

L’inutile decreto art-bonus sulla cultura non serve a creare nuovi posti di lavoro

Una defiscalizzazione insufficiente, limitata nel tempo che esclude il patrimonio culturale privato e di fatto non rivoluziona in maniera virtuosa il rapporto fra il mecenatismo e lo Stato

Simonetta  Bartolini

di Simonetta  Bartolini

arato in tutta fretta prima della scadenza elettorale il decreto, battezzato Artbonus, riguardante le defiscalizzazioni in materia di mecenatismo nei beni culturali è quanto di più deludente si possa immaginare. Sotto tutti i punti di vista.

Non introduce un vero cambiamento nei rapporti fra privati e Stato riguardo ai Beni culturali, di conseguenza non crea nuovi posti di lavoro stabili o stabilizzabili o almeno ripetibili, e lascia fuori il patrimonio culturale privato.

Secondo quanto varato in Consiglio dei ministri e sottoposto alla firma del ministro Franceschini, chiunque impegni i propri soldi a favore del recupero dei beni artistici appartenenti allo Stato avrà in cambio uno sgravio fiscale del 65% della somma spesa ammortizzabile in tre anni, ma solo per il 2014, già nel 2015 il bonus fiscale scenderà al 50%.

Dunque il messaggio contenuto in questo decreto è una sorta di rapida chiamata ai portafogli per tutti coloro che vogliano essere dei benemeriti dei beni culturali dello Stato, in cambio lo Stato gli farà grazia defalcando dall’imponibile, per tre anni, circa il 22% di quanto regalato allo Stato in una volta sola, cioè da quanto il benemerito dovrà pagare di tasse.

Non c’è dubbio che a qualcuno farà comodo anche questa “minima” ridicola detassazione per magari rientrare in certe aliquote minori ecc ecc. Ma dal punto di vista dei rapporti fra il cittadino e lo Stato il principio è delirante.

Non siamo infatti di fronte alla proposta di un sostanziale, duraturo e virtuoso cambiamento nei rapporti fra chi ha la possibilità di fare mecenatismo in campo culturale e lo Stato che ne ha bisogno, tale da generare nuovi posti di lavoro e una continuatività nella valorizzazione e tutela,  ma solo di istituire una momentanea relazione di tipo economico che vada a tamponare l’emergenza attuale (che peraltro stando così le cose non avrà mai fine e anzi è destinata a crescere e a drammatizzarsi).

Insomma per dirla con parole povere: lo Stato prova a raggranellare un po’ dei soldi che gli mancano per i beni culturali in cambio di un bonus fiscale (ridicolo).

Lo Stato vuole solo fare cassa (e lo capiamo) e subito, ma non guarda, come si suol dire, oltre il proprio naso che in questo caso è cortissimo, addirittura camuso. Tanto è vero che limita il suddetto bonus solo a coloro che si faranno mecenati nei confronti del patrimonio direttamente appartenente allo Stato. Resta fuori tutto quell’enorme patrimonio culturale privato, ma pubblico, cioè fruibile o potenzialmente fruibile dal pubblico, di cui l’Italia è ricca e che sarebbe ulteriore fonte di posti di lavoro. 

Come abbiamo scritto qualche giorno fa, presentando la proposta di Sylos Labini a proposito della necessità di defiscalizzare il mecenatismo in cultura e di separare le carriere fra compiti delegati allo Stato e quelli affidabili al privato, soprattutto in tempi di crisi come quelli che stiamo vivendo l’unico modo per convincere chi li ha a spendere soldi a fondo perduto è quello di considerare quei soldi come mai guadagnati.

Io do allo Stato 10.000 euro per contribuire ad un restauro, quei soldi faranno lavorare il restauratore – sui cui compensi lo Stato prenderà in dovuto in tasse e contributi agli oneri sociali–, faranno tornare fruibile un’opera d’arte restituendo l’integrità dell’offerta turistica, senza contare l’aspetto di “doverosa” tutela.

Dunque privandomi, con un atto di liberalità, di quei 10.000 euro io mi sostituisco allo Stato che non ce la fa, contribuisco a creare posti di lavoro e di conseguenza a far arrivare soldi nuovi nelle casse dello Stato. Ma un conto è essere liberali e generosi e un conto è essere fessi, dunque darò volentieri quei soldi solo se lo Stato li considererà completamente detraibili dalla mia dichiarazione dei redditi. Altrimenti il mecenatismo rimarrà nelle mani dei super-ricchi che valuteranno il dare e l’avere con parametri giustamente diversi da quelli della creazione di un circuito virtuoso e il trend non cambierà mai.

Il che significa che la cultura continuerà a non produrre guadagno per nessuno, a rimanere qualcosa considerato improduttivo e addirittura un peso da sostenere per mantenerla.

Immaginate invece se chiunque potesse detrarre interamente quel che donasse alla cultura, anche piccole cifre, 500/1000 €, immaginate che anche i fondi culturali privati potessero far usufruire i propri sostenitori della completa detrazione di quanto donato. Immaginate ora quanti giovani laureati in materie culturali potrebbero essere impiegati in lavori di catalogazione, di ricerca. Quanti giovani potrebbero andare a sorvegliare l’apertura dei piccoli musei privati, delle case museo di cui l’Italia è ricchissima (solo per fare qualche esempio), ottenendo anche il risultato di spalmare il turismo oltre i centri più noti facendo più ricca tutta la penisola.

Il mecenatismo di chi ha tanti soldi è importante, ma anche quello diffuso di chi ne ha solo un po’ di più di quanto è necessario diventerebbe, in forza della numerosità, un potentissimo volano per l’economia e per restituire benessere e ricchezza a questo paese.

Ma chi impegnerà 1000 € a fronte di una detrazione di 220 euro per tre anni? Pochi pochissimi, forse nessuno in tempi di crisi come questi.

Il decreto Franceschini è dunque inutile, un’occasione perduta per cambiare veramente, ammesso che in questo paese si voglia davvero cambiare.

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