Casa Museo Sigfrido Bartolini

Attraversare il passato per abitare il presente

Nella dimora, oltre alla ricca pinacoteca, vasi, brocche, mobili, lastre, strumenti artigianali, frammenti e reperti, oggetti quotidiani d’ogni tipo.

di Maria Gregorio

Attraversare il passato per abitare il presente

Poche considerazioni, tratte dalla mia frequentazione e dallo studio delle case museo.

La mia lettura è stata trasversale – l’ho condotta lungo il doppio binario dei due temi: la casa, le cose – e mi ha portato a una conclusione. Tra le molte e molto belle case museo che conosco, quella che porta il nome di Bartolini si prospetta quale gioiello “museologico” di rara pregnanza.

            L’intera casa e le moltissime cose che Sigfrido Bartolini vi ha depositato lungo il suo cammino testimoniano già oggi, infatti, che cosa sia l’abitare: abitare la casa ma anche la vita, la propria terra e il proprio tempo. Che cosa sia fare arte, e uso di proposito il verbo “fare”. Infine, che cosa significhi lasciare un’eredità e che cosa comporti accoglierla, farla propria e nuovamente trasmetterla.

            Che altro sono, queste, se non le tappe di ogni autentica esperienza che si offre al visitatore in una casa museo? In casa Bartolini le stazioni di tale percorso sono, non soltanto già perfettamente predisposte, ma anche, grazie a chi quella casa oggi ancora abita, rese vive da quel “sonoro dell’anima”, in assenza del quale ogni testimonianza, anche la più bella, rimane muta.

La casa di cui parliamo, voglio tuttavia sottolinearlo, è stata costruita a poco a poco nel tempo e abitata da due persone, Sigfrido e Pina Bartolini. La mano di Sigfrido ha lasciato la sua impronta ben visibile. Diversa, come è giusto sia, ma altrettanto forte è la traccia che continua a esservi impressa dal lavoro di cura amorevole, intelligente e sapiente di Pina.

 

Se dovessi dare un titolo a queste mie brevi riflessioni sceglierei quello – elementare e fulminante – di un libro sui musei di cultura materiale, pubblicato alcuni anni fa: “Imparare dalle cose”.

    

Composizione fotografica di alcuni interni della Casa Museo SIgfrido Bartolini           

           
Di rado, infatti, come in Bartolini, si capisce immediatamente e nel senso più profondo il significato dell’espressione coniata da Le Corbusier: “objets à réaction poétique”. Sono gli oggetti – nel suo caso, d’origine naturale: ciottoli, conchiglie, minerali – che l’architetto non si stanca mai di raccogliere, dipingere e disegnare; di imitare, spesso trasformandoli in forme architettoniche. Altrove li definisce anche “portatori di pensiero”, e diventano la matrice del suo fare arte. A partire da quei reperti naturali di forme “primarie”, l’architetto principe della modernità elabora una teoria dello spazio con cui trasformerà l’architettura.

Attenzione: li raccoglie, non li colleziona. Così, anche Sigfrido Bartolini – il cui gesto immagino amoroso, quasi evangelico – raccoglie e dispone in casa gli oggetti – per lo più non d’origine naturale bensì creati dalle mani dell’uomo – che gli capita di incontrare: sono vasi, brocche, mobili, lastre, strumenti artigianali, frammenti e reperti, oggetti quotidiani d’ogni tipo. Sono cose di cui, come si legge nel Diario, egli voleva trovare il “volto eterno”, di cui voleva cercare “fino in fondo il segreto, la meraviglia della forma”. Proprio come avviene al museo, nel momento stesso in cui li dispone nella casa (con profonda saggezza, non meramente estetica), quegli oggetti, al pari dei ciottoli e delle conchiglie di Corbu, diventano portatori di una poetica e di un pensiero.

In questo particolarissimo rapporto con le cose mi sembra di poter accostare i due artisti filosofi, per quanto lontani essi siano sotto ogni altro aspetto. Entrambi vedono nel proprio lavoro su quelle cose che sono depositarie di una forma “primigenia” la possibilità, forse l’unica, di costruire un ponte dal passato verso il futuro.

Per Bartolini, in particolare, quelle forme di antica cultura rendono testimonianza di un mondo in via di sparizione. Minaccia su cui il suo pensiero, di uomo e artista, insiste dolorosamente e di cui pochi sono stati consapevoli quanto lui.

Nel volume dedicato alle vetrate della chiesa dell’Immacolata, Siliano Simoncini parla dell’amore dell’artista per la civiltà del passato, in particolare per quella cultura contadina a lui tanto cara da essere “eletta a poetica artistica, a mediazione tra le immagini e il loro valore semantico”, quasi fosse in grado di sollecitare “la memoria rispetto agli archetipi umani e tipologici degli oggetti, come per confermare il significato dei simboli”.

            Leggendo queste parole, è impossibile non pensare agli oggetti che compaiono in tante opere dell’artista, ma soprattutto nelle sue vetrate, dove ogni cosa è se stessa nella propria assoluta fisicità ed è, nel contempo, archetipo e simbolo: la cesta, il bastone, le scarpe, i pani, il letto… Lo stesso si può dire per molte immagini del Pinocchio: illustrato, scrive Marino Biondi, “per rendere omaggio alla più grande favola italiana, ma anche per far rivivere un’Italia perduta”.

È Simonetta Bartolini a raccontare nel modo più limpido e partecipe sia il dolore provato dal padre di fronte all’evidenza di un mondo che ha concluso il suo ciclo sia la sua sofferta decisione di non chiudere la porta in faccia alla storia. Pur nel rifiuto di certa modernità, Sigfrido Bartolini si tiene saldo e non si ritrae: “non rinuncia e non aderisce”. Vuole “testimoniare l’esistenza del passato e la possibilità nel presente”.

Attraversare il passato per abitare il presente – anzi, per creare il presente – diventa per lui possibile soltanto elaborando il lutto della scomparsa di una civiltà: è ciò che avviene quando s’immerge nel lavoro sulle cose raccolte, osservate e rappresentate nella loro forma archetipica.

La casa partecipa di quello stesso movimento dell’animo. Essa pure è cosa e al pari delle altre racchiude, come scrive Aurelio Pezzola, “stilemi antichi tramandati da una cultura millenaria”. Eppure, è una cosa molto speciale: “objet à réaction poétique” per eccellenza, nel cosmo di Bartolini la casa occupa il posto centrale quale “testimonianza di resistenza nel tempo”. Così appare nelle tante famosissime opere dell’artista e così la definisce con parole precisamente scalpellate Claudio Rosati. Che tuttavia, da quell’aura mitica e sacrale, sa riportarci anche alla meravigliosa concretezza della realtà, allo “spazio domestico, che ha il colore e il calore del legno, della carta e della ceramica, dei cesti di melegrane e di uva, di gessi dell’accademia, di torchi e di sgorbie, [che] si illumina dello stesso nitore della pittura.

            Si coglie meglio in questi interni l’amore per la semplicità che si ritrova nel panorama degli oggetti che costellano le tavole di Pinocchio, dagli armadi ai cassettoni, dalle tagliole alle scope di saggina, dai lumi a petrolio ai pestelli di marmo. Qui costruisce con precisi colpi di cazzola, senza sgarrar mai, il suo paesaggio domestico. Non c’è alcunché che non abbia una sua coerenza con tutto il resto”.

Questa è, ancora oggi, casa Bartolini. Dove è già compiutamente delineato il cammino, il “paesaggio dell’anima” che il visitatore è invitato a percorrere. Nulla manca, in queste stanze, di ciò che fa un museo: gli oggetti, innanzi tutto, di cui ho parlato e che ne costituiscono la collezione a un tempo antropologica e artistica (basti pensare alla strepitosa raccolta di opere proprie e di altri grandi).

Poi, le straordinarie testimonianze del fare nelle stanze in cui Bartolini era solito operare e che ne conservano intatta l’impronta: i tanti strumenti del pittore, disegnatore e incisore, le diverse prove di stampa, le pietre e le lastre, i prototipi, i molti diversi oggetti, più che “poetici”, portatori di una poetica: tutti raccontano, specie a una generazione più giovane, che cosa è stata ed è l’“aristocrazia artigiana”, prima ancora che artistica.

Per chiunque entri nell’una o nell’altra stanza, è impossibile sottrarsi al fascino che emana dalle tracce di quel lavoro. Un lavoro – ed è uno dei grandi pregi della casa – che qui è possibile ripercorrere nel suo intero dipanarsi: dal primo gesto sul materiale grezzo all’opera compiuta. Parlare di “didattica” suona quasi grottesco, offensivo di fronte a quei materiali, a quegli strumenti la cui eloquenza è immediata, in certo senso pari quasi a quella delle opere. Assai meglio dire che qui “impariamo dalle cose”.

Non manca nel grande, suggestivo spazio del sottotetto un ricchissimo archivio, dove gli studiosi possono immergersi nelle loro ricerche tra documenti unici della cultura artistica, ma anche letteraria e storica, degli anni di Bartolini.

Ciò che io posso testimoniare di persona è che nella casa ci è dato vivere, soprattutto, quel “diletto” citato da icom quale segno distintivo di ogni museo degno di tal nome.

In chiusura, due brevissime riflessioni.

“La linea – afferma Paul Klee,– non imita il visibile, ma rende visibile”. Per sua natura, il museo è strumento di mediazione e interpretazione ed è inutile, se non addirittura dannoso, pretendere di farlo coincidere con un’integrale restituzione di quel che è stato, illudendo i visitatori che ciò che essi ora vedono sia un perfetto “dov’era e com’era”.

In ogni museo, ma soprattutto nelle case museo, si tratta di rappresentare le storie. Impossibile e fuorviante è, sempre, il tentativo di riprodurle.

Di qui il passo è breve al tema dell’eredità, centrale nelle case museo. E lo faccio citando un bell’intervento recente di Barbara Spinelli, da cui traggo soltanto pochi minuscoli frammenti, che offro alla riflessione: “Si lascia ad altri quel che non si porta con sé, dunque lasciare è anche un dischiudere, permettere. È una messa in libertà… Ereditare non è impossessarsi, ma un esperire il vuoto, la separazione… Ciò che è passato chiede di vivere in noi, non in fusione con noi... È possibile salvare, sì, quel che si può interiorizzare: non la persona bensì la relazione con la persona” (i corsivi sono miei).

            Sono spunti su cui ci si potrebbe intrattenere a lungo per ragionare intorno allo spirito che deve improntare di sé gli allestimenti e il rapporto con i visitatori in un museo che è stato e talvolta continua a essere casa.

Lungo la scala di casa Bartolini vi è uno dei cartoni che sono serviti per le grandi finestre dell’Immacolata: raffigura un pellegrino scalzo che sale il gradino per entrare in una casa. Ha il volto provato dal viaggio. Attorno al capo, un’aureola.

            Così mi piace immaginare, aureolati dell’imminente felicità, tutti coloro che varcano la soglia di quelle stanze risonanti di meraviglia.

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