Editoriale

Andate in pace la famiglia è finita

Niente più responsabilità, né doveri, né regole e neppure genitori

Giuseppe del Ninno

di Giuseppe del Ninno

i parla sempre molto di famiglia: in genere, di questi tempi, per deplorare l’insufficiente sostegno legislativo ed economico assicurato, al di là di ogni reboante dichiarazione, da tutti i governi succedutisi in questi anni; e si parla di famiglia specialmente ora che sono prossime al varo norme che questo fondamentale istituto si propongono di ridisegnare, per adeguarlo alle mutate realtà dei tempi.

Non è infatti fuor di luogo ricordare che la famiglia, come ogni fenomeno umano, vive nella storia e non è dunque un’Idea platonica, un’astrazione immutabile, un pilastro nel sistema di valori che orienta la vita pubblica e privata di ognuno, ma è anche un dato culturale, il frutto di civiltà in evoluzione. Qui basterà rinviare alla Bibbia e al Diritto romano, per trovarci di fronte a realtà ben diverse da quelle nelle quali viviamo oggi e che ci troviamo a difendere, nel gran mare tempestoso dei continui cambiamenti di sensibilità. Tuttavia, pur mutata nelle sue dimensioni e nella composizione attraverso le epoche e le civiltà, al centro della famiglia sono sempre stati un uomo e una donna, un padre e una madre.

E’ di poco tempo fa la notizia del grande movimento di piazza a Parigi, dove hanno manifestato, appunto, i difensori della “famiglia tradizionale”, preoccupati dalle misure innovative annunciate dal presidente Hollande e dal suo governo, misure dove spiccano, fra l’altro,  la parità di genere, l’abolizione del concetto di “buon padre di famiglia”, l’imposizione della dicitura “genitore 1” e “genitore 2”, nel caso di adozione di bambini da parte di coppie omosessuali, i progetti educativi finalizzati alla eliminazione, fin dalla più tenera età, degli stereotipi  sulle differenze sessuali.

Di tutti questi materiali, nel nostro nuovo diritto di famiglia non vi è traccia: si parla sì dell’indebolimento della posizione genitoriale (con l’abolizione di quella che fu la patria potestà), ma si tutela quella dei figli illegittimi e si procede al riconoscimento dei diritti dei nonni (anche questo, un portato dei tempi, dove ai nonni viene riconosciuta, per legge, una contropartita alla loro nuova funzione sussidiaria del welfare).

Certo, le leggi e le sentenze rappresentano per un verso i segnali lanciati dalla società a cui sono destinate, per l’altro si pongono come meccanismi di guida, se non di costrizione, quando quella stessa società si mostra, nella sua maggioranza, riluttante al cambiamento. E’ di questi giorni il verdetto con cui il tribunale di Grosseto ha riconosciuto la legittimità, per il nostro ordinamento, della trascrizione di un matrimonio omosessuale celebrato negli Stati Uniti, aprendo, indirettamente, un varco in direzione del riconoscimento sic et simpliciter di questo tipo di unioni.

A sostegno della loro pronuncia, quei giudici hanno sottolineato come né la Costituzione né i Codici né le leggi facciano esplicito riferimento al sesso come condizione per la validità di un vincolo matrimoniale sancito fuori dai confini. Con buona pace di quello che per secoli è stato un pilastro non solo del diritto, ma della società, e che recitava: nuptiae sunt coniunctio maris et foeminae. Del resto, di recente, in Australia, è stata abolita sui documenti l’indicazione del sesso: un traguardo di tappa preparato da decenni di contestazione, ora esplicita, ora strisciante, nei confronti dei ruoli e delle connesse differenze.

Così la famiglia è già – e ancor più diventerà – un agglomerato di affetti e di interessi, ma è anche un condensato precario e variabile di soggetti dalle vocazioni fragili ed effimere, sempre più schiavi del piacere personale e delle costrizioni materiali, sempre più restii ad assumersi responsabilità e sempre più pronti a reclamare diritti, dal divorzio veloce al figlio a tutti i costi, anche a quello di farsi prestare un utero o uno spermatozoo da soggetti esterni alla coppia, sacrificando i gameti “inutili”.

Un processo avviato, visibilmente, nella Spagna di Zapatero e che sembra irreversibile, nel segno di Istituzioni e di strati popolari sempre più caratterizzati da una laicità intransigente, ma che pure reclamano, da parte delle autorità ecclesiastiche, una benedizione che assecondi e “santifichi” il cambiamento, tanto per non farsi mancare neppure una “benedizione” religiosa.

L’avvento e la diffusione della Tecnica erano già stati preconizzati da pensatori quali Spengler, Jünger, Gehlen e, in anni più vicini a noi, Emanuele Severino; ma ora la Tecnica invade anche gli ambiti più intimi, insinuandosi perfino nei più delicati meccanismi biologici e ponendo in discussione quelle che, fino ad oggi, erano definite “leggi di natura”.

Dalla natura alla cultura allora il passo è stato breve e, dove si dice “cultura”, si dice discussione, opinioni variabili, idee acquisite, manipolazione del consenso; del resto, tale contrapposizione fra “immutabile” e “transeunte” si manifesta proprio nel campo del diritto, dove si fronteggiano concezioni più legate al diritto naturale – metastorico – e concezioni che assegnano la prevalenza a quello positivo, mutevole in funzione delle contingenze storiche.

Oggi, il pensiero che anche in questo campo si appresta a divenire “unico” – essendo già diventato  “politicamente ed eticamente corretto” – è quello che, facendo leva su di una sensibilità orientata verso una pur auspicabile tolleranza, afferma la cultura del genere e il genere come cultura, l’identità sessuale essendo appunto un dato culturale e, quindi, variabile: in un simile panorama, si inseriscono la vicenda del bambino di quinta elementare che, tornando a casa, racconta alla mamma che la maestra ha spiegato in classe come ognuno di loro, volendo, potrebbe cambiare sesso o l’altro fatto di cronaca, dove si racconta della pubblicazione di un libro di favole con gli eroi “gay” e dunque con un affrancamento dagli schemi dei ruoli, affidati sempre a un principe maschio e ad una principessa femmina.

I processi sono in atto, in Italia grazie anche alle iniziative di una magistratura, sempre più in funzione di antidemocratica supplenza nei confronti del ceto politico: perciò, se battaglia culturale deve essere, che sia battaglia, ricordando che siamo in un frangente storico, in cui non bisogna aver paura – o vergogna… - di guardare al passato, per orientare le nostre scelte esistenziali e, per quanto possibile, quelle politiche.

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