Le chiesette di legno

L’architettura delle fiabe della Santa Madre Russia

In un'alchimia di cultura nordica , bizantina e slava prevale la mistica sulla razionalità geometrica anche nelle costruzioni

di Piccolo da Chioggia

L’architettura delle fiabe della Santa Madre Russia

Suzdal

Quale sia la nostra percezione dello spazio russo, quale la nostra immagine del suo panorama fisico non è semplice dire.

Avviene spesso che questi ci appaiano come un oriente e la nostra letteratura quando deve delimitare ciò che per noi è, o appare, la Russia ricorre a delle descrizioni dove, alla fine, l’aggettivo orientale o il suo sostantivo hanno un peso che prevale.

Ciò lo si può ritenere come un filo conduttore che se non è errato, è comunque di molto semplificato. Da uno sguardo alla carta geografica o, con l’esperimento qui più utile, dall’aver nelle mani un modello del globo si vede chiaramente che, rispetto alla nostra posizione sulla sfera planetaria, il mondo russo è certo un mondo orientale, ma è pure un mondo boreale e forse il peso di quest’ultimo aggettivo è pari, o quasi, a quello del precedente. Mosca è sul medesimo parallelo all’incirca della danese Kopenhagen.  Su di una stretta striscia che avvolge dall’alto la Finlandia, all’estremo Nord della Scandinavia, Norvegia e Russia ancora confinano tra loro. Fin qui per la geografia.

La storia rinforza l’impressione geografica dato che l’apporto nordico al mondo culturale russo è di fondamento. La stessa parola Russia deriva da un termine che indicava i Vareghi, i navigatori scandinavi che risalendo con i loro agili vascelli a due prore gli estuari dei grandi fiumi del Nord erano arrivati nel cuore del continente dove avevano stabilito colonie commerciali e le avevano fortificate come città.

Pare accertato che l’antica parola “Rus” sia da derivare da una radice che risulta scandinava e non proveniente da altri gruppi linguistici. All’apporto nordico nella cultura dei primordi russi va affiancato l’apporto ellenico e romano pervenuto attraverso la cultura bizantina. Costantinopoli, che per i Russi era “Tzarograd”, la “città dell’imperatore”, dà il cristianesimo al popolo slavo disperso nelle foreste di querce e betulle di un territorio immenso; un popolo che però riesce ad imporre la sua lingua materna, un idioma indoeuropeo del gruppo “satem” particolarmente espressivo, anche ai Vareghi che sulla sua compagine si sono sovrapposti dando avvio ad una sovranità formatrice di ampi principati.

Con la religione, da Tzarograd, arriva pure un alfabeto, derivato da quello ellenico, e adattato alla lingua slava, tramite il quale si irradia nella cultura di un popolo che si sta formando la teologia bizantina, cui si accompagnano parabole, novelle e poesie che daranno i primi modelli ad una nascente letteratura. Arriva anche la pittura delle icone dove la gerarchia dei colori e della posizione delle figure e l’architettura dello spazio raffigurato d’intorno traggono ragione dalla teologia stessa e poi dalla dottrina del potere imperiale inaugurata da Eusebio in quel di Costantinopoli.

Certo se non ci si vuole inoltrare in una ricerca molto bella ma pure lunga, volta ad individuare tutte le origini e le componenti espressive del mondo russo, negli usi popolari, nell’arte, nella filosofia, l’aspetto orientale di cui si è detto da principio, e che è quello che prevale, lo si può condensare, in pratica, per la maggior parte in quello ellenico e poi bizantino che non si allontanano troppo, in fondo, né dalla nostra geografia né dalla nostra storia. Ravenna, Venezia, Bari sono state per molto tempo in Italia i centri dell’ultima sovranità imperiale di Costantinopoli e ne hanno irradiato il fulgore della civiltà e l’originalità della cultura.

Ma quanto fin qui esposto in guisa di preambolo è dato solo per introdurre con un po’ di ornamento quello che è un capitoletto dell’architettura rurale russa e però è anche esempio della riuscita fusione sul suolo dei “Rus” degli elementi nordico, bizantino e slavo. Qua e là infatti, per le floride campagne di quelli che furono il regno di Kiev e di Novgorod e poi della Moscovia, la razionale bravura dei maestri d’ascia variaghi, esperti nel costruire le affilate e rapide navi a due prore, divenute, queste, i rostri che artigliano la gloria dei mari nella colonna trionfale di Pietroburgo, muta assi e traverse non più in vascelli ma nell’architettura mistica di piccole e belle chiesine di legno.


Sui loro tetti a falda molto spiovente, una cupola o la costellazione delle cupole rappresentano l’avvenuto connubio del Nord avventuroso con l’ultima Ellade. Se la similarità di queste costruzioni con altre, sempre in legno, dei paesi scandinavi che risalgono addirittura al XII secolo è palese per la tecnica e le linee dei vari prospetti, l’innesto della vena bizantina russificata avviene con la cupola centrale dalla caratteristica sagoma a bulbo, posta al sommo del tetto e coronata, a volte, dalle altre cupole satelliti.

Le quali ultime, viste da un occhio lontano ed esercitato in letture neoplatoniche, possono sembrare come dei pianeti nel loro moto intorno al globo centrale espressione dell’Helios, il Sole dei mistici dell’ultimo culto apollineo nell’ellenismo.

Certo queste chiesine “Rus” rendono manifesta tutta un’altra idea rispetto a quella esemplificata dall’invulnerabile tempio dorico. Non si può però guardare a questi manufatti con l’occhio col quale si contemplano la forza e l’armonia della prima Ellade, è un altro mondo che qui si esprime: è il mondo nordico assimilatosi a quello bizantino ed innestatosi su di un popolo slavo che, come scriveva Nikolaj Roerich, nei “suoi soleggiati boschi di betulle celebrava i riti dedicati agli antichi dei” o nelle cui “foreste remote ancora oggi mormorano le querce sacre” ed era quindi incline di suo più alla mistica che alla razionalità geometrica.

Ma anche ad osservare con l’occhio formatosi sulle prospettive del Partenone queste chiesine, fatte con il legno dei boschi dove dimorano gli antichi dei, non si può non percepirne in ogni caso la particolare bellezza che è più quella della favola e della novella popolare che non quella arcaica del mito o dell’illuminazione filosofica e misterica. Ordine nelle forme, simmetria e armonia delle proporzioni vi sono certamente, ma il tutto si è dovuto adattare a sostenere il peso della neve e a trattenere il calore e si è fatto visibile ed inconfondibile in un panorama freddo e continentale dove, appena rialzate sulle guglie o sulle vicine cime arboree, le cupole coronate dai loro satelliti richiamano alla mente con il vigore del simbolo e l’ingenuità dell’arte popolare l’astro infuocato che tutto illumina.

                                   

Poscritto

Queste chiesine hanno un’architettura quasi elementare: sono nel caso più semplice come due isbe, la cui architettura è quella classica della capanna europea dal tetto a due spioventi, di differente altezza e larghezza unite come fra loro dalla facciata in comune, in modo che gli spioventi del tetto siano paralleli e il tutto, visto dall’esterno appaia grato e non difforme.

La cupola o le cupole a bulbo sono poste sulla cresta o sulle creste dove gli spioventi si uniscono. L’ingresso è dalla facciata dell’isba più grande e spesso diviene esso pure un ambulacro rudimentale e in miniatura, coperto da una tettoia che può essere semplice o addirittura a due falde.

Il lettore sull’internet può scorrere cento e cento immagini di queste chiesine rurali russe ora restaurate, ora ricostruite, e persino costruite ex novo. E altrettanto può scorrere le immagini delle consimili chiesine rurali norvegesi, decorate di qualche tetto in più e arzigogolate da fregi sporgenti che sembrano quasi delle teste di drago.

Il quesito che ci si può porre è quello che riguarda il senso della strana e caratteristica cupola a bulbo detta pure, con gergo un po’ più barbaro, a cipolla. A cosa serva la cupola, e precisamente ogni cupola, è cosa nota dagli studi sui simboli riassunti nell’opera magistrale di René Guenon.

Ma qui il quesito va oltre: perché questa specificità del bulbo quasi staccato che pare una sfera in attesa di salire? Il ricordo plastico va subito all’immagine d’un aerostato che lento e ballonzolante sale nell’aere. E se si rammenta la bellissima prefazione al “Il mondo come volontà e rappresentazione” di Arthur Schopenhauer, nell’aerostato che sale lentissimo a dispetto dei venti e del peso, il filosofo di Danzica vedeva l’allegoria della Verità, nel suo caso quella della sua filosofia incline alla mistica, che lenta lentissima e spesso solo per i posteri si afferma di contro ai flutti avversi della storia e dell’incomprensione.

Ora ricordando anche l’affetto incrollabile che Leone Tolstoj aveva avuto per Schopenhauer, l’unico del quale lo Zeus della letteratura russa, sempre pronto a scagliar folgori, tenesse un ritratto nel proprio studio in Jasnaja Polianska, non mi pare inadeguato proporre quest’immagine e allegoria per esplicare uno dei sensi possibili alla strana forma di queste cupole. Così tipiche da definire senza alcuna ambiguità lo spazio russo.

Poscritto secondo

Ho studiato per quanto possibile la regina di queste chiesine in legno, quella di Suzdal, con la mia pratica sul campo: l’ho ritratta dalle foto in prospettiva più e più volte sui miei taccuini e fogli volanti fino a che mi pareva di averla come è detto in tedesco: “fest im Griff”, e traduco con un volteggio: salda sotto la matita.

In Chioggia, lungo il Canal Vena, la via d’acqua parallela al Corso del Popolo ornata dalle belle case affacciate e dagli archi slanciati dei bei ponti, vi è ad un certo punto un piccolo slargo, quasi una specie di campiello sul quale la mia fantasia immaginava di elevare una di queste chiesine russe in legno. Nella stamberga conservo i disegni di questa fantasia architettonica, poco più d’uno scarabocchio però non privo d’una sua suggestione: la chiesina di legno dagli spioventi ripidi e la cupola a bulbo è timida ma figura bene proprio per questo fra le case non alte e non monumentali pure se belle, costellate di fumaioli a tronco di cono che si apre verso il cielo. La sua cupola assomiglia ad un aerostato da modellisti o al palloncino pronto a sfuggire dalla mano del fanciullo come nella poesia di Montale. Non vi è dubbio che l’architettura a volte sia, senza avvedersene, un’allegoria poetica.

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