Parla Valentuomo

Massimo Fracaro e Nicola Saldutti, «Corriere della sera», 2 aprile 2014

La situazione ha del paradossale, eppure nelle maglie (si potrebbe dire nelle trappole) previdenziali si nascondono molte iniquità. Prendiamo il caso dei lavoratori atipici, che ormai rappresentano una quota rilevante degli occupati. Senza correzioni molti di loro, pur versando regolarmente i contributi, piuttosto onerosi considerata l’esiguità dei compensi, rischiano di trovarsi alla fine di una carriera oscillante e discontinua con una mini-rendita. Meno di una mezza pensione. E senza la possibilità di avere, come i loro genitori o loro nonni, l’integrazione al minimo (la quota a carico dello Stato che serve a portare l’assegno Inps a una soglia minima). Il pericolo, non tanto remoto, è di aver effettuato versamenti a fondo (quasi) perduto. Anzi, la cosa è ancora più sottile: la gestione separata dell’Inps, alimentata da chi ha in corso contratti di collaborazione continuativa o a progetto o rapporti di associazione in partecipazione, è addirittura in attivo di 8 miliardi. Una cifra identica al passivo che registra, ad esempio, il fondo dei dipendenti pubblici. Un anomalo sistema di vasi comunicanti. Certo, sulla base delle regole previdenziali, non si può affermare che i co.co.co. pagano le pensioni degli statali, ma la coincidenza fa pensare. Del resto è stata la stessa Corte dei conti, come scriveva Fabio Savelli, ad avvertire di questo rischio. Ma i numeri, come spesso accade, non spiegano tutto. «Se dovessimo dare la simulazione della pensione ai parasubordinati rischieremmo un sommovimento sociale», si lasciò scappare nel 2010 l’ex presidente dell’Inps, Antonio Mastrapasqua, poi costretto a dimettersi per la pluralità degli incarichi ricoperti. Eppure in quelle parole c’era un pezzo di verità che non si riesce a far emergere. Quanto riceveranno, davvero di pensione, i lavoratori parasubordinati? Il sistema di calcolo contributivo lega direttamente l’assegno alle somme effettivamente versate. In molti casi i lavoratori atipici non riusciranno a costruirsi una pensione adeguata. Una situazione che va corretta. Almeno su un fronte: andrebbe detta loro la verità previdenziale e lo Stato dovrebbe giocare a carte scoperte con i suoi cittadini-giovani-futuri pensionati. Come? Più volte è stata promessa la cosiddetta «Busta arancione»: un documento inviato a ciascun lavoratore con l’indicazione della pensione che presumibilmente andrà a incassare. Per capire quale sarà il proprio destino pensionistico, in modo da poter pensare a soluzioni alternative. Un atto di trasparenza. E di equità. In questi anni i contributi sono più che raddoppiati, dal 12% al 28% e saliranno al 33%. Forse serve una riflessione, tenuto conto che le pensioni rischiano di essere mini. Si potrebbe introdurre una maggiore flessibilità: aliquote più basse a inizio carriera, più alte al progredire del reddito. Ma la vera sfida è quella di mettere al centro dell’azione politica la crescita del Paese. Il sistema contributivo, infatti, lega le pensioni alla dinamica del Pil. Con un’Azienda Italia che cresce del 2% l’anno, il rapporto tra ultimo reddito e pensione può salire anche del 20%. Senza questa svolta i giovani, arrivati al traguardo, si accorgeranno di aver lavorato quasi esclusivamente per pagare la pensione a chi li ha preceduti. Nessun pasto è gratis. Ma arrivare a tavola sparecchiata e vuota è tutto un altro discorso.

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