Comitato direttivo
Giovanni F. Accolla, Franco Cardini, Domenico Del Nero, Giordano Bruno Guerri, Gennaro Malgieri, Gennaro Sangiuliano, Mirella Serri, Marcello Veneziani.
Su questa inquietante battuta cala il sipario, al teatro fiorentino
della Pergola su Una pura formalità,
lo spettacolo in prima nazionale diretto da Glauco Mauri e da lui tratto dal
film di Giuseppe Tornatore. E l’applauso parte, un po’ perplesso forse nelle
prime battute ma poi sempre più deciso fino a sancire la piena approvazione da
parte del pubblico, soprattutto difronte alla indubbia bravura – anzi, all’arte
– dello stesso Mauri e di Roberto Sturno.
Notevoli anche luci e sceneggiatura, essenziali ma molto efficaci e il piccolo ma affiatato e validissimo gruppo di comprimari.
Dunque l’opera si chiude con un interrogativo che risuona nella mente dello spettatore. Una pura formalità è uno spettacolo difficile, di quelli che fanno lasciare la sala perplessi e magari nonostante tutto vagamente insoddisfatti. Ma è sola una prima superficiale impressione, perché poi quanto si è visto lavora dentro e accende la riflessione, alla maniera di Pirandello che non a caso, insieme al Kafka del Processo è stato richiamato come punto di riferimento fondamentale.
E quindi anche questa si rivela una scelta vincente di un teatro che in queste ultime due stagioni ha bene indovinato la propria “metafora”: una nave che procede sicura verso il porto del successo, conciliando, cosa non certo facile, i gusti del pubblico con la qualità artistica. L’opera in programma questa settimana ne è un chiarissimo esempio. Apparentemente, una sorta di giallo: una sperduta stazione di polizia durante una notte tempestosa, con poliziotti un po’ bulli di periferia un po’ ragazzi della porta accanto. E un commissario dall’aria dimessa e dalla carriera (forse) non troppo brillante, interpretato da un sornione Glauco Mauri, pronto però a trasformarsi inopinatamente in abile inquisitore. All’improvviso gli agenti portano un uomo che sembra scappato da un manicomio; esagitato, smania, scalcia e si prende pure qualche sberla da un agente lesto di mano e corto di pazienza. Incredibile a dirsi, quel personaggio esagitato e bagnato fradicio si rivela un celebre scrittore, Onoff, (Roberto Sturno) che però non ricorda come sia giunto lì, né cosa abbia fatto prima.
Ma c’è stato un delitto, e il commissario alterna encomi calorosi verso Onoff come scrittore a minacce e interrogatori incalzanti verso colui che ritiene colpevole di assassinio. Soprattutto però lo aiuta a ricordare, a riportare alla mente verità rimosse e scomode: “questo testo, secondo me, vuol far capire agli spettatori che bisogna avere il coraggio di aprirsi e di conoscersi perché solo così possiamo davvero comprendere che cos’è la nostra esistenza” dichiara Mauri, che sottolinea poi una delle battute più importanti di Onoff: “ Gli uomini, per non morire d’angoscia e di vergogna, sono eternamente costretti a dimenticare le cose sgradevoli della loro vita e più sono sgradevoli, più si apprestano a dimenticare”. Quello che però aggiunge un ulteriore tocco di fascino al tutto è la dimensione onirica o meglio surreale, dello spettacolo: che cos’è esattamente questo commissariato in cui i verbali restano bianchi e non si trova una penna che scriva? Escluso che si tratti di una fin troppo realistica fotografia di questi tempi di crisi, rimane il fascino di una dimensione “altra”, suggerita con grandissima capacità di suggestione. Non per nulla Onoff, personaggio complesso e poliedrico reso benissimo da Sturmo, ha la camicia coperta di sangue: assassino? Vittima? O paradossalmente entrambe le cose?
Il testo non risponde a questa domanda la cui risposta è lasciata allo spettatore. “ Ricorda cosa diceva il suo professore di matematica – dice il commissario allo scrittore – Due rette parallele non si incontrano mai. Tuttavia è possibile immaginare l’esistenza di un luogo così lontano nello spazio, ma così lontano nell’infinito, da poter credere e ammettere che le due rette vi si incontrino in un punto … che chiameremo un punto improprio.
Perché non pensare dunque che questo misterioso posto di polizia sia in realtà (se così si può dire!) il posto di frontiera tra la vita e la morte, dove l’uomo prima di poter affrontare la sua nuova destinazione deve “ricongiungersi con se stesso” ? Una sorta di purgatorio? La “dissoluzione delle pareti” del misterioso commissariato nella scena finale potrebbe suggerirlo …
A ciascuno l’ardua sentenza. Quel che è certo è che si tratta di uno spettacolo di qualità, da vedere e meditare.
Repliche sino al 2 febbraio, spettacoli ore 20,45, domenica ore 15,45.
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