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Personaggi del 900

Mino Maccari, strapaese fascista e l'antifascismo del dopoguerra, una questione irrisolta

Nel ventennio inneggiò al movimentismo della prima ora ma anche contro la stabilizzazione in regime , poi le cose cambiarono e con loro anche l'artista di Colle Val d'Elsa

di Ivan Buttignon

Mino Maccari, strapaese fascista e l'antifascismo del dopoguerra, una questione irrisolta

Mino Maccari

Il 16 giugno del 1989, Mino Maccari (1898 - 1989) si spegne novantenne nella sua casa di Via Villa Emiliani a Roma ben commemorato, molto giustamente, da tutta la stampa italiana. Maccari, in Italia ricordato come umorista, è noto in tutto il mondo per la sua arte à la Daumier. Dopo la dittatura, negli anni della democrazia sceglie di non fare più politica attiva.

Del Maccari politico, è rimasto ben poco. Il Regime lo sanziona spesso e volentieri, la Repubblica insabbia i suoi trascorsi ideologici. Tant’è che la stampa italiana lo ricorda quale eccelso artista, mentre non spende una parola sui fatti politici che lo vedono protagonista. Il silenzio è a dir poco imbarazzante.

Maccari rappresenta, assieme a pochi altri, l’autentica via fascista, il più puro fascismo storico italiano: il cosiddetto diciannovista. Non a caso Maccari scrive: «Bisogna essere diciannovisti nel ’19, nel ’26, nel ’34 e finché Dio ci darà fiato»[1]. Il diciannovismo di Maccari presenta comunque alcune peculiarità, a partire dai forti accenti tradizionalista, popolare, cattolico, antiborghese, antiamericano, antidealista e antimodernista. Quel fascismo che ripudia le mode dei pennacchi e degli orbaci, che guardava ai contadini e al lavoro manuale, artigiano e artistico. Quel fascismo che si oppone a industrialismo e urbanizzazione.

Nel turbinio di riviste politiche, tutte originali ed esclusive, dove «L’universale» di Ricci propone un ghibellinismo spiritualista, e «900» di Bontempelli lancia polemiche antitradizionaliste ed europeizzanti, “

«Il Selvaggio» si pone come neosquadrista, con l’unica differenza che il manganello e l’olio di ricino sono sostituiti da articoli e vignette.

Ma il movimento di Maccari pare sopravviva benissimo al fascismo. Nel luglio del ’70 parla infatti a Ennio Flaiano di «area campagnola non ancora viziata dai poderosi complessi dell’Ing. (honoris causa) Mattei, del Conte (del Duce e di Guttuso) Marzotto, della Snia Viscosa, dell’Italcementi e della Finmeccanica»[2]. Mutatis mutandis. Cambiano i contesti, cambiano i regimi, ma i leitmotiv restano gli stessi.

La biblioteca di Mino Maccari[3] ospita, tra i molti altri, un libro che il proprietario, visti i contrassegni, le chiose e le sottolineature riportate, ha consultato con assiduità: Antifascismo perenne, di Gabriele Pepe[4]. L’autore, un liberale di sinistra, quindi di segno nettamente antireazionario, considera l’antifascismo il nuovo valore liberale sul quale ricostruire la Nazione. Tende a rigettare i processi al passato (quindi ai Savoia e anche allo stesso Fascismo), e interpreta l’antifascismo quale baluardo contro la nuova reazione[5].

Viene da chiedersi quindi se Mino, dopo l’epopea fascista, abbia davvero abbracciato l’ideale liberale di sinistra, credendo intimamente nel progetto politico di Pannunzio. O se piuttosto il sogno di Mino continui a essere, anche durante il periodo democratico, in cui si schiera con quelli che poteva definire i meno peggio, quello di «un fascismo immaginario, rustico e garibaldino, incorrotto e intrepido, veridico e giusto, intelligente e sereno, paternalmente saggio e insieme forte della forza che è della pura, intatta, ideale giovinezza»[6].

Nell’atmosfera del mito dannunziano Mino, ufficiale di complemento, «girava con un mantello azzurro»[7].

Il sogno di «un dannunzianesimo di provincia, con goccioline mussoliniane»[8].

E’ l’alba. Il cavallo bianco galoppa lungo il tracciato, sembra sfrecciare. Il ragazzo, fermissimo, si regge forte sulle briglie, completamente aggrappato all’animale.
Il mantello celeste, precisamente orizzontale rispetto al suolo, sbandiera nervosamente. Perfettamente aderente al fisico del cavaliere, magro e compatto, la divisa diventa corazza. La fibia della cinta, che pare dividergli a metà il corpo, riflette la luce flebile e opaca del primissimo mattino. Le due file di bottoni, sei per parte, luccicano a gruppi di tre o quattro per volta. Nella penombra, le stelle bianche sul colletto sembrano sulfuree.
Lo sguardo è fermo, fiero, magnetico. Le pupille sembrano lanciare saette oltre le colline, contro il sole nascente.
Il cavallo rallenta, inizia a trottare, finché poco alla volta si ferma. Il giovane ufficiale scende con un salto elegante e deciso. Scruta l’orizzonte. Lo sguardo un po’ malinconico e un po’ raggiante, tradisce un sogno: sposare Anna. Il cuore gli batte forte. I pensieri lo divorano. La guerra finirà presto e Mino, questo il suo nome, sa che prima o poi dovrà lasciare quei luoghi di isolotti e penisole lungo il corso del fiume Secchia, nel modenese. Tornerà in Toscana, stavolta con la sua Anna.
Mino in guerra combatte volentieri. Sente che vale la pena sacrificarsi per una causa superiore, totalizzante. Ma sa anche che dopo la guerra ci sono molte altre cose da fare. C’è Anna, appunto. E forse c’è qualche altro sogno da esaudire. Dipingere, per esempio. E poi c’è un po’ di ordine da fare, nel suo Paese. Non può stare a guardare chi sovverte le Istituzioni mentre sul fronte milioni di italiani si immolano per la Patria.
Mino si volta di lato, verso il cavallo. Lo guarda negli occhi, gli sussurra qualcosa. Fa scivolare una mano sul liscio mantello, salta in groppa e riparte. E corre via, sempre più veloce, lungo gli argini del Fiume Secchia e verso la sua battaglia.



[1]In G. Callaioli, Mino dal Colle. L’”impolitico” di Strapaese, Petrartedizioni, Pietrasanta (LU), 1998, p. 12.

[2]M. Maccari, Lettere a Flaiano (1942-1972), a cura di D. Bacci e D. Rueesch, prefazione di N. Ajello, Edizioni Pananti, Firenze, 1991, p. 151.

[3]Ora Fondo Mino Maccari, nella Biblioteca Comunale di Colle Val d’Elsa.

[4]G. Pepe, Antifascismo perenne, Edizioni della Bussola, Roma, 1945.

[5]E. Santarelli, Storia critica della Repubblica. L’Italia dal 1945 al 1994, Feltrinelli, Milano, 1996, p. 176.

[6]C.L. Ragghianti, Il Selvaggio di Mino Maccari, cit., p.10.

[7]P. Bianchi, Catalogo mostra del Maccari alla Galleria d’Arte “Il Canale”, 1961. G.A. Cibotto, Contropelo, Neri e Pozza, Vicenza, 1996, p. 76.

[8]N. Ajello, M. Maccari. Con irriverenza parlando, Il Mulino, Bologna, 1993, p. 8.

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    1 commenti per questo articolo

  • Inserito da piccolo il 03/11/2013 14:23:15

    di Strapaese vale sempre di ricordare che Julius Evola le definì scemenze. ci aiuta a dare a Maccari non più di tre o quattro minuti d'attenzione per la sua prosa e cinque o sei per i suoi disegno e pittura. era bravo. certo. come tanti altri. oggi brillerebbe molto di più. ma sarebbe fin troppo facile. stop.

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