Nato oggi?

Giuseppe Verdi: un “monumento” dell’Opera italiana?

Riservato, poco espansivo; la leggenda gli attribuisce un potere iettatorio. Icona del Risorgimento nel '900 ha diviso la critica in favorevoli e contrari...

di Domenico Del Nero

Giuseppe Verdi: un “monumento” dell’Opera italiana?

Duecento anni oggi di Giuseppe Verdi … ma  è proprio sicuro?  Arthur Pougin, autore di una Vita aneddotica di Giuseppe Verdi della seconda metà dell’Ottocento, quindi quando il compositore era ancora ben vivo e vegeto, parla del 9 ottobre 1813, anche se i registri della Chiesa di San Michele a Roncole, paesino dell’antico ducato di Parma e Piacenza   riporterebbero l’11.   La data del 10 è ormai comunemente accettata: era figlio di Carlo e di Luigia nata Utini, di professione osti. Una famiglia modesta e incolore che però fece il possibile per assecondare le inclinazioni musicali del ragazzo, anche se certo fu presto oscurata dal mecenate Antonio Barezzi :

“In questa scala di valori non fu molto il posto riservato ai genitori: non figurano nella vita di Verdi, benché siano scomparsi abbastanza vecchi per assistere alla sua piena maturità” scrive un suo biografo e studioso, Carlo Casini, che riporta anche uno sgradevole aneddoto: un tentativo del povero padre di farsi passare per l’intendente dell’oramai glorioso e benestante figlio nelle terre di Sant’Agata sarebbe stato rintuzzato con questa frase altezzosa: “presso il mondo Carlo Verdi deve essere una cosa, e Giuseppe Verdi un’altra”. Sarà anche un esempio del suo carattere forte e deciso, che gli servì non poco nei rapporti con impresari e librettisti, ma anche della sua sgradevolezza e scarsa amabilità: non era un personaggio simpatico. Colpa forse di una adolescenza difficile e incolore e dei lutti che funestarono la sua piena giovinezza: la morte della prima moglie Virginia (sposata nel 1836)  figlia del suo mecenate Barezzi e ancor prima dei due figlioletti che aveva avuto da lei, tra il 1838 e il 1840.  Certo era un uomo riservato e poco espansivo.

La sua vicenda biografica è infiorata di vari aneddoti, alcuni dei quali sicuramente autentici: la caduta in un canale all’età di dieci anni, da cui lo salvò miracolosamente un contadino e inoltre un incidente … iettatorio: da bambino serviva messa alla chiesa delle Roncole e per un ritardo nel servizio fu bruscamente spintonato dal celebrante. Il fanciullo cadde e batté  la testa, ma nella caduta avrebbe esclamato: “ Dio t’manda na sajetta”. Qualche tempo dopo, il prete manesco venne ucciso da un fulmine mentre celebrava in una chiesetta di campagna …

Fulmini a parte,  Verdi  divenne presto il musicista italiano per eccellenza; per un lungo periodo, la sua fama e le sue opere hanno quasi eclissato quelle di altri compositori non meno valenti. Non solo; per molto tempo è stato il  simbolo stesso del melodramma italiano, al punto che il suo nome veniva polemicamente contrapposto a quello del grande collega-rivale tedesco Richard Wagner (nato fra l’altro nello stesso anno, ma in maggio), portatore di una concezione dell’opera davvero nuova e rivoluzionaria.

Tutto questo, oggi, è stato ridimensionato su più fronti, anche perché nel “mito Verdi” era entrata una componente non propriamente artistica, ossia quella storico-politica: Verdi sarebbe stato l’artista simbolo del Risorgimento italiano, l’autentico interprete sul palcoscenico degli ideali patriottici, al punto che con il suo nome si era costruito un grazioso acronimo (viva Verdi = Viva Vittorio Emanuele re d’Italia).

Ora Verdi, soprattutto negli ultimi anni prima del 1859, guardò senz’altro con interesse al movimento unitario; dopo una prima simpatia repubblicana negli anni  1848-49, si avvicinò come tanti altri alla linea monarchico-liberale di Cavour; ma il suo impegno politico fu assai meno eclatante di quanto non si creda, e soprattutto non esattamente alla luce del sole: basti pensare che il Nabucco e i Lombardi, opere considerate “patriottiche”, furono graziosamente dedicate a due arciduchesse austriache!  Ma a parte questo, e anche considerando il fatto che del Risorgimento sono venute finalmente allo scoperto anche le numerose ombre, oggi si cerca di valutare l’arte verdiana per il suo significato artistico e non per quello politico.

E proprio su quest’ultimo punto, i pareri anche della critica italiana (quella straniera non ha quasi mai condiviso l’apoteosi di Verdi) non sono più tanto unanimi. Intanto, nella seconda metà del ‘900 si sono riscoperti  e riproposti non solo il grande Rossini, che non è più ormai da tempo considerato (con buona pace del sommo Beethoven) solo un musicista “buffo”  e Donizetti, ma anche operisti “minori” del’700 e dell’800, che hanno fatto vedere un panorama dell’opera italiana assai  più complesso e variegato; poi, sono iniziate voci critiche che tendevano a svalutare, in qualche caso anche in modo piuttosto drastico, il significato dell’opera verdiana.

Il caso più famoso è stato forse quello di un grande musicologo, Piero Buscaroli, che iniziò verso gi anni ’70 del ‘900 con una serie di articoli a “demolire” il mito verdiano, accusando il musicista di scarsa cultura strumentale ( in effetti, almeno fino agli anni ’60 dell’800, Verdi non curò mai più di tanto la strumentazione delle sue opere)  e di avere con una sorta di “dittatura” musicale chiuso il melodramma italiano all’influenza delle nuove tendenze (soprattutto tedesche) che si andavano affacciando sulla scena europea. Secondo questa concezione, condivisa anche da altri critici , l’opera verdiana sarebbe quasi tutta da ridimensionare, con l’eccezione dell’ultimo periodo (quello di Otello e Falstaff) in cui il compositore, grazie anche all’intervento del collega Arrigo Boito, grande poeta musicista che gli si affiancò come librettista:  Verdi finalmente dette allora una svolta decisiva alla sua produzione e all’opera italiana in genere.

Con tutto il dovuto rispetto per Buscaroli (che non è certo poco), sicuramente uno dei musicologi italiani più colti, coraggiosi e preparati, anche in questa impostazione, come in quella che esaltava Verdi in modo acritico, c’è qualcosa di troppo. Chi scrive,  va detto per dovere d’onestà, non è affatto un verdiano e non si colloca tra i grandi estimatori del musicista; non per questo giunge certo  a negarne la grandezza e l’importanza. Ma è stato senz’altro giusto ridimensionarne il mito; Verdi non è “l’unico” musicista italiano e non è neppure detto che sia il più grande, dato ma non concesso che simili classificazioni e “graduatorie” abbiano un senso e un fondamento. Non ha neppure però senso, a nostro parere, vedere l’opera verdiana come una lunga e faticosa “corsa” verso i due ultimi lavori, che verrebbero in questa prospettiva ad essere i soli capolavori o quasi del compositore. Per comprendere pienamente il significato di questo musicista, bisogna vederlo nella prospettiva del melodramma italiano dell’età romantica, che egli portò alla massima perfezione possibile, e infine superò. Un suo “limite” certo, che però per i suoi sostenitori è invece un merito, è quello di non aver  voluto superare questa impostazione (tranne che alla fine della sua carriera), di  essere rimasto  fino in fondo ancorato alla logica dei “pezzi chiusi”, ovvero al melodramma visto come una serie di arie, recitativi, duetti, cabalette e cavatine, pezzi d’insieme etc.; inoltre per lui il melodramma era soprattutto canto, lo strumentale veniva sempre in secondo piano e per questo lo trascurò a lungo.

Si può senz’altro convenire su questo punto; del resto Verdi ostacolò a lungo, con dura ostinazione, ogni tentativo di ampliare gli orizzonti dell’opera italiana con una maggiore attenzione alla musica sinfonica. Bisogna però anche riconoscere onestamente che Verdi, almeno nelle sue opere maggiori, non è affatto uno stanco ripetitore della vecchia tradizione operistica italiana, ma parte da essa per cercare di imporre una sua concezione; che è senz’altro basata sul dramma, ovvero il musicista, almeno nelle sue opere maggiori, non considera l’opera come una serie di pezzi staccati, quasi intercambiabili (come a volte davvero succedeva) da un’opera all’altra; egli cerca cioè di trovare nelle sue opere un centro, un momento di unità, una prospettiva unificante che può essere data da un particolare personaggio o, a seconda dei casi, di una particolare atmosfera. Inoltre, egli sottopone a ferrei controlli tutti i vocalizzi e i “capricci” dei cantanti: tutti gli effetti vocali, almeno nel Verdi maggiore, non sono mai puri abbellimenti, ma sono tutti mirati ad ottenere effetti drammatici voluti e calcolati. Anche nei ruoli vocali il musicista segue tutto sommato la tradizione, ma sempre comunque a modo suo e senza farsene condizionare più del necessario. Per ottenere questo, dopo aver acquistato il peso necessario come compositore Verdi impose la sua autorità sui librettisti, dai quali non si lasciò mai condizionare (salvo che alla fine, da Boito, ma anche qui solo fino a un certo punto); anzi, per molte opere ebbe come collaboratore il “suo” poeta di fiducia,Francesco Maria Piave (1810-1876), che finì con diventare una sorta di…segretario addetto ai versi del compositore. Va detto però che quasi tutti  i libretti di Verdi, fino a Boito, sono magari efficaci sul piano drammaturgico, ma alquanto penosi su quello poetico. Basti pensare alla “mogliera frullata” (del Macbeth) o “all’orma dei passi spietati” (Il ballo in Maschera).

Tuttavia, già il Don Carlos (1867),  proposto quest’anno dal Maggio Musicale Fiorentino, mostra una concezione drammaturgica ben più scaltrita e avanzata delle opere precedenti. Ma la vera svolta fu segnata dall’incontro con l’antico rivale Arrigo Boito, che portò alla creazioni di quei due stupefacenti capolavori che sono Otello (1887) e Falstaff (1893),  meravigliosa opera di un ottuagenario che però più che dal grande pubblico fu amata da intenditori e dai compositori successivi (soprattutto la cosiddetta generazione dell’Ottanta) che la videro giustamente come una pietra angolare.

 Gli ultimi due melodrammi verdiani infatti segnarono le nuove vie per l’opera italiana, che i nuovi compositori non potevano ignorare.

L’aspetto più vistoso del tardo stile verdiano, a cui i maestri “veristi” dovevano in larga misura rifarsi, consisteva in nuovo equilibrio tra strumentalismo e vocalità: il canto strofico poi, che nelle sue categorie e schematizzazioni tradizionali era stato alla base dell’opera italiana, non spariva del tutto ma subiva una significativa erosione, mentre l’orchestra assurgeva al ruolo di vera e propria protagonista. Non c’era  però solo questo, ma anche un rinnovato rapporto tra musica e letteratura, e in questo l’apporto di Boito fu fondamentale: il testo del melodramma, il famigerato “libretto”, non doveva avere più soltanto funzionalità drammaturgica, anche a costo di versi orripilanti  o di situazioni ripetitive di rapimenti, figli perduti e ritrovati, amori impossibili e via… cantando, ma avere una dignità letteraria e una qualità poetica che mirasse all’armonia, alla fusione tra parola e musica.

La collaborazione con Boito, soprattutto per il Falstaff, seconda opera comica della sua carriera (la prima era stata il fallimentare Un giorno di Regno  del remoto 1840)  fece bene anche al carattere riservato e surciglioso del musicista bussetano: “Io vivo con l’immenso Sir John, col pancione, collo sfonda-letti, collo sfianca – mule, coll’otre di vin dolce, col burro vivente, tra le botti di Xeres e le allegrie di quella calda cucina dell’Osteria della Giarrettiera “ -  scriveva Boito a Verdi nell’Agosto del 1889; e Verdi, da parte sua, qualche tempo dopo “ Il Pancione è sulla strada che conduce alla pazzia. Vi sono dei giorni che non si muove, dorme ed è di cattivo umore, altre volte grida, corre salta, fa il diavolo a quattro (…) Io lo lascio un  po’ sbizzarrire, ma se continuerà gli metterò la museruola e la camicia di forza.”

“Dette una voce alle speranze e ai lutti, pianse e amò per tutti” fu l’epitaffio di D’Annunzio per Verdi, scomparso il 27 gennaio 1901. Eppure questo artista, che aveva dato vita e suono  a personaggi e a situazioni tragiche indimenticabili, concluse la sua vicenda d’artista con un’opera comica!  “C’è un solo modo di finir meglio che coll’ Otello ed è quello di finire vittoriosamente col Falstaff. Dopo aver fatto risuonare tutte le grida e i lamenti del cuore umano finire con uno scoppio immenso d’ilarità”!-  Aveva scritto Boito per incoraggiarlo all’impresa.  E fu così che Verdi finì in bellezza con una risata, con la splendida fuga buffa Tutto nel mondo è burla.                                    

Se questo non è genio ….

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