Saggio rivoluzionario

Pascoli e Tolkien: il Fanciullino nella Terra di Mezzo?

Una lettura eretica e rivoluzionaria di Pascoli intrecciata con quella dell'autore del Signore degli anelli

di Domenico Del Nero

Pascoli e Tolkien: il Fanciullino nella Terra di Mezzo?

La copertina del libro

Gli arbusti e le fratte pascoliane come le foreste degli Ent? Cosa può legare, al di là di alcune coincidenze biografiche, Giovanni Pascoli (1855-1912) e John Ronald Reuel Tolkien (1892-1973)? Entrambi rimasero presto orfani e entrambi si ritrovarono professori universitari; la critica non fu particolarmente benevola nei loro confronti, con alcune rilevanti eccezioni e spesso e volentieri li fraintese. Né l’uno né l’altro vinsero il premio Nobel – a Tolkien fu proprio rifiutato, con risibili e vergognose motivazioni, nel 1961 – e visto certi recenti  vincitori e certe deliranti proposte di assegnazione la cosa potrebbe costituire un indubbio titolo di merito.  Ma al di là di questo?

E’ assai poco probabile che il creatore del Signore degli Anelli, nonostante la sua vasta cultura, conoscesse l’opera pascoliana e il poeta italiano morì troppo presto per poter  essere sedotto dal fascino della Terra di Mezzo, che con tutta probabilità avrebbe assai apprezzato.  Che senso può avere, allora, una lettura di Pascoli … alla luce di Tolkien? “Abbiamo visto che Pascoli e Tolkien rappresentano culture diverse in tempi diversi, dal punto di vista storico nessun legame fra i due può essere dimostrato né documentato perché quasi sicuramente non esiste”scrive Simonetta Bartolini, docente universitaria e studiosa di letteratura italiana,  verso la fine del suo nuovo, brillante e “scandaloso” saggio Il Fanciullino nel Bosco di Tolkien. Pascoli: la fiaba, la magia  l’epica e la lingua, edito da Polistampa.  Ma allora … si tratta di un saggio o di     un ‘opera … fantasy?

Si tratta di uno studio, agile e sintetico ma di grande profondità e chiarezza, che sicuramente lascerà perplessa e scandalizzata certa cultura “parruccona”, amante delle etichette e della classificazioni lombrosiane, per cui Pascoli è semplicemente il poeta del Fanciullino e Tolkien un autore di letteratura di seconda (nella migliore delle ipotesi) categoria; e del resto,  la lista dei fraintendimenti pascoliani, a partire dalla totale incomprensione di Benedetto Croce (tanto che un amico del poeta parlò di … Pascoli in croce!) sino al celebre e per certi aspetti comunque illuminante saggio di Giorgio Barberi Squarotti  potrebbe essere pari alle stupidaggini e ai tentativi di stravolgimento operati sul grande scrittore inglese, sicuramente uno dei maggiori del Novecento (e non solo). La lettura della Bartolini propone dunque una analisi “comparata” della concezione del mondo e dell’arte del poeta italiano e dello scrittore britannico, sicuramente “eretica” come lei stessa dice  e che, senza pretendere di cancellare del tutto interpretazioni precedenti, cerca però di andare oltre una lettura meramente “autobiografica” del poeta romagnolo, il cui “fanciullino” viene sin troppo spesso interpretato in senso riduttivo, quasi “bamboleggiante” (anche se bisogna ammettere che per alcuni versi è stato il poeta stesso a incoraggiare questo fraintendimento) o peggio ancora pedagogico, tramite  un “ impiego strumentale di tutto quell’armamentario tipico della fiaba modellato su terrori infantili per meglio ammonire il fanciullo a percorrere la retta via”.  

Il punto di maggior contatto fra le due concezioni artistiche sta, secondo la Bartolini, nella concezione tutta particolare della lingua: entrambi sono, dantescamente parlando, veri e propri “fabbri del parlar”. Per Tolkien infatti la fiaba nasce fondamentalmente dalla “magia delle parole, scaturita da un uso razionale della fantasia e dell’immaginazione ".  Per Tolkien, cioè l’invenzione linguistica è strettamente legata alla crescita e alla costruzione di leggende e la sua opera stessa  non è altro che un grandioso (e riuscito) tentativo di dar vita a un’epica nordica che tragga verità e sostanza dalla formazione linguistica:  lingua dunque non come semplice “convenzione”, ma vera e propria  magia capace di dar vita a un mondo, creare un’epopea, strumento di una “subcreazione”  in cui l’arte si sposa alla lingua in un rapporto di reciprocità creativa.

Benissimo per Tolkien, ma … Pascoli? E qui che il saggio della  Bartolini diventa veramente “rivoluzionario”. Il fanciullino pascoliano, secondo la sua lettura, perde  - o perlomeno ridimensiona – i suoi connotati di stereotipo psicologico  per acquistare invece la dimensione di un vero e proprio “demiurgo” di platonica memoria; e non per nulla, del resto il saggio pascoliano inizia proprio con una reminiscenza del  Fedro.  Il fanciullino, secondo la studiosa, diventa un vero e proprio “legislatore linguistico”; e del resto non si tratta di gratuite illazioni, ma di dichiarazioni di Pascoli stesso che la Bartolini sottolinea, dandovi un significato “nuovo” che però balza agli occhi ad una lettura appena attenta del testo; come quando poeta romagnolo definisce il fanciullino nuovo Adamo, colui che dà il nome alle cose. E ed è proprio “linguistica” la grande rivoluzione di Pascoli, forse “inconsapevole”, come la definì, senza aver purtroppo il tempo di approfondire il concetto, il grande critico Giacomo Debenedetti: una lingua che attingendo a sostrati perduti e dimenticati, “morti”, dà vita a  un nuovo epos, non più unitario come quello di Omero che pure rimane un punto di riferimento ineludibile, ma “frammentato” in una serie di testi che però hanno una loro segreta e più profonda unità: non più la melodia infinita dell’epica classica, ma una voce modulata sul  “balbettio”di una modernità in cui ogni riferimento tradizionale e ogni anelito di grandezza  rischia di scomparire nel nulla.

  E allora- ed è questa forse la novità più “sconvolgente” della lettura della Bartolini - i continui richiami ai cari defunti, alle tragedie familiari, all’assassinio del padre e al tentativo di ricostituire un nido sarebbero un rappresentare in forma umana le parole morte, i linguaggi perduti e dimenticati per la cui estinzione il poeta soffriva, come per la perdita dei suoi cari. Una lettura che ovviamente non esclude quella letterale, ma inserisce se mai una dimensione “allegorica” che vada oltre il velame delle parole (e non si dimentichi a questo proposito che Pascoli era un appassionato studioso di Dante) e che va vedere l’opera pascoliana in una dimensione affatto inedita: non più la ricerca di “frammenti di poesia” in mezzo a retorica pedagogia come voleva Croce, né una netta demarcazione tra un “grande Pascoli” simbolista e poeta dell’ignoto e uno bamboleggiante e predicatorio: ma tutte la raccolte pascoliane (elaborate tra l’altro quasi “in contemporanea”, senza una vera e propria evoluzione cronologica) sono  un unico grande progetto epico-narrativo che ha in Myricae la sua base fondamentale, con approfondimenti e specificazioni nelle altre raccolte: dall’epos del quotidiano a un inserimento nella modernità, come scrive Ghidetti, dei grandi personaggi del mondo antico come Solone o Alessandro magno.  

Ecco che allora la Bartolini può concludere così il passo citato all’inizio, quello sul rapporto Pascoli –Tolkien: “Eppure la magia di un incontro, oltre il tempo e la storia, attraverso simili intenti poetici e letterari, nonché la sostanziale coincidenza (nella apparente assoluta diversità di generi) di progetto culturale, rappresenta la suggestione più affascinante che proietta Pascoli non solo oltre la sua epoca, ma anche verso una contemporaneità dove la speranza di grandezza non sia spenta per sempre.”

Simonetta BARTOLINI, Il  “fanciullino” nel bosco di Tolkien. Pascoli, la fiaba, l’epica e la lingua, Firenze, Polistampa, 2013, pp. 78, € 8,00.

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    1 commenti per questo articolo

  • Inserito da sabyda il 07/10/2013 12:15:23

    Che dire, è stato esplicato in maniera esaustiva tutto il preambolo del perché del confronto tra questi due grandi, la Dottoressa Bartolini, un genio veramente della letteratura, ha saputo trasmettere a chi legge l'articolo, secondo me la voglia di sfogliare e guardare e comprendere cio' che è scritto nel suo libro; è cio' che deve fare uno scrittore invogliare a leggere,,, e lei con questo c'è riuscita.

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