Editoriale

Caro Andrea, non serve unirsi nella comune povertà, ma contro la decadenza morale e l’abbrutimento intellettuale diffuso

Ho il terrore delle società che si basano su contratti sociali come unico sprone etico, mi spaventa (e non poco) far crescere i miei figli in un’Italia povera

Giovanni F.  Accolla

di Giovanni F.  Accolla

me, caro Andrea, invece, spaventa (e non poco) far crescere i miei figli in un’Italia povera. Attenzione, non in un Paese povero qualunque (che pure potrebbe essere una esperienza formativa), ma in questo. Questo che è stato, grazie allo sforzo di più generazioni, ricco, produttivo, felice, capace di distribuire benessere. Anzi, mi duole che il benessere non sia stato distribuito a sufficienza e senza  autentica equità. Al mito della decrescita felice non ci credo, e meno ancora alla povertà  - come del resto alla ricchezza -  come valore.

I poveri non sono migliori degli altri in quanto poveri, e neanche i ricchi in quanto tali. Ma i poveri hanno molte più possibilità di cadere in fallo. Di coltivare cattivi pensieri e commettere pessime azioni. Io vorrei vivere in un Paese dove non ci sia povertà. Dove i bisogni primari dei singoli siano talmente soddisfatti, che ci sia ampio spazio per i desideri e, per le anime migliori, per i sogni. E mi angoscia l’idea di assistere (e subire anche sul piano personale) muto, alla decadenza economica e alla disperazione. Ai fallimenti, alle umiliazioni e ai suicidi. Ho pena per me e per i miei, a vivere in una società malsicura del proprio destino.

Non mi sento di esaltare la volontà della rinuncia, ma - semmai - quella della felicità. Come sempre, del resto. E non vedo alcun motivo, ora, per mutare interessi e convinzioni. Non ho nessuna intenzione, come chiedi tu, di “accettare la povertà, perdere qualcosa, ritornare a un’Italia umile, continuare a stare insieme su nuove fondamenta umane”. A me, francamente, quell’Italia umile che evochi, fa schifo (è sporca, puzza di ideologia), e ancor di più la retorica che intorno ad essa alcuni intellettuali hanno sempre inventato. No, non tu. Ti conosco: tu non vai verso il popolo, tu sei il popolo. Che fa la differenza. Ma io sono un borghese, capisci? Un borghese incanaglito dall’amore e dal disprezzo. Dalla luce che squadra ogni cosa. Dalla modernità che non ci fa scegliere i nostri problemi - per parafrasare Camus - ma che ce li fa subire.

Il mio appello, in caso, sarebbe quello di far fronte comune - finalmente senza divisioni ideologiche - contro la decadenza morale, contro l’abbrutimento intellettuale diffuso. Farei un appello affinché si interrompesse la corsa all’asservimento a modelli sociali tendenti al livellamento e alla stagnazione dei consumi culturali, per esaltare - di contro -  esclusivamente quelli materiali.

Ho il terrore delle società che si basano su contratti sociali come unico sprone etico. Ho ribrezzo per le analisi sociologiche che mettono a riparo le coscienze e nascondo l’indifferenza verso il singolo. Ne ho piene le palle di opinioni democratiche, neo-umanistiche, buone per ammansire gli animi. Delle scuole e delle maestre, non ne posso più e ho disgusto per la tele-ugualianza.

Non ho mai creduto alla linea retta del progresso, né alla contemplazione muta dell’eterno e ora non voglio neanche un futuro addomesticato dall’accettazione del destino.

Il cammino è sempre meglio delle soste, fermo restando che la vita umana è costante occupazione verso il futuro. Quindi, tornare indietro, significa essere spacciati. Fatti un giro in Grecia, in Spagna, in Portogallo. Poi mi dici se: Tityre, tu patulae recubans sub tegmine fagi siluestrem tenui musam meditaris auena: nos patriae finis et dulcia linquimus arua nos patriam fugimus 

La povertà non è bella (né tantomeno etica), se non è frutto di una rinuncia o di una scelta ponderata. E senza mezzi termini ho sempre disprezzato coloro che si facevano vanto della loro povertà, spesso sbavando alla tavola dei ricchi, soltanto perché ricchi loro non erano, o non erano riusciti a diventarlo.

La libertà di tutti, come il benessere diffuso, sarebbero dovuti essere dei privilegi che la classe dirigente avrebbe dovuto difendere. Il guaio, di tutto l’Occidente ma specialmente dell’Italia, è la mancanza di tale classe. Il tempo ha smascherato senza più appello una stortura sociale che si è rivelata gravissima. Abbiamo smarrito un modello culturale. Ma non possiamo permetterci un’inversione di rotta in mezzo al mare in tempesta.

E’ nostro dovere tener presente che il benessere porta con sé il germe della libertà. La povertà è un embrione del terrore.

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