Editoriale

Piano-Italia per uscire dalla crisi: attrarre investimenti, infrastrutture adeguate e visione globale

La miopia politica non può più essere tollerata, ecco come fare a imprimere una spinta virtuosa al sistema-paese

Mario Vattani

di Mario Vattani

i hanno insegnato che salvò l’Italia chi, trent'anni dopo le distruzioni della seconda guerra mondiale, riuscì nel 1975 a portarla nel G7, il gruppo delle nazioni più industrializzate del mondo.

Oggi ci raccontano che l’hanno salvata di nuovo, ma nell'ultimo anno la situazione economica, che già non era brillante, si è ulteriormente aggravata: crollo del Pil (-2,5 %), produzione industriale in picchiata (-6,2%), debito pubblico da 2000 miliardi, aumentato in termini assoluti di 117 miliardi, pressione fiscale cresciuta di quasi 3 punti, un milione in più di disoccupati.

Oggi, dopo la cura tecnica, il nostro reddito nazionale è in caduta libera, tuttavia dai programmi dei maggiori partiti politici e dall'Agenda Monti non emerge nessun progetto capace di invertire una rotta che ci porta al declino, al sottosviluppo, alla povertà. 

Visti i risultati, ora assistiamo forse a un ravvedimento operoso del Professore, che annuncia possibili riduzioni della pressione fiscale. Ammesso che ciò sia vero, e considerato il vincolo del debito pubblico, può questo fatto da solo risuscitare una domanda esangue dopo il salasso dell'Imu e l'aumento vertiginoso delle tasse?

Alcuni, di fronte al dramma della disoccupazione giovanile (un giovane su tre è disoccupato), propongono micropolitiche basate su incentivi e defiscalizzazioni. Ma quando mai micropolitiche di questo tipo hanno dato risultati macroeconomicamente rilevanti?

Altri suggeriscono di ritagliare e ridistribuire la torta del Pil per una maggiore giustizia sociale. Ma questo di per sé non farà crescere le dimensioni della torta.

Altri ancora auspicano interventi specifici: investimenti per la banda larga, la ricerca, le smart cities. Spesso sono interventi del tutto generici, fuori da un quadro globale. Si propongono poi questi interventi ignorando che le casse italiane sono vuote. Mancano fondi pubblici, e il risparmio privato interno - già ridotto all'osso a causa di una pressione fiscale insostenibile - non è certo interessato a investire in politiche settoriali come queste.

Mentre le dimensioni della recessione raggiungono livelli preoccupanti, sorprende la miopia di chi ci ha governato, e l'incapacità di leggere la situazione globale nel suo insieme. Eppure per un Paese come il nostro, privo di risorse naturali, l'attenzione al mondo esterno dovrebbe essere un imperativo. La capacità di trovare nuovi mercati, di analizzare le trasformazioni in corso fuori delle nostre frontiere è sempre stata la bussola con cui orientarci nel contesto internazionale.

Ma oggi, in un mondo che ha subito mutamenti epocali, sembra che ci sia accorti della globalizzazione solo per lamentarsi delle sue componenti negative: concorrenza dai Paesi emergenti, declino delle nostre quote di mercato, diseguaglianze crescenti.

In particolare non ci si rende conto di due evoluzioni essenziali del quadro globale, capaci di agire da moltiplicatori di ricchezza: da un lato, la nuova centralità geopolitica del Mediterraneo; dall'altro, la domanda crescente di beni di alta qualità che i mercati chiedono all'Italia (non solo moda e design) e che il nostro sistema economico è perfettamente in grado di produrre. La domanda mondiale per i nostri prodotti - meccanica e modelli di trasformazione, artigianato, agricoltura, vini, alimentazione - è in continua crescita. In mercati come la Russia e il Brasile, dai Paesi dell'Asia a quelli del Golfo, il prodotto italiano ha un appeal che non ha eguali in nessun altro Paese. Sono oltre 600 milioni gli individui oggi in grado di accedere all'alta qualità e il loro numero è destinato a crescere, sia per le dinamiche demografiche sia per i tassi di sviluppo dei loro paesi di origine

Chi ha redatto l’Agenda Monti sembra inconsapevole del ribaltamento geopolitico avvenuto quando l’asse America - Nord Europa ha ceduto il passo al Mediterraneo: da una parte, le Americhe (Nord e Sud, quest'ultima neppure menzionata nell'Agenda Monti); dall'altra, l'Oriente (Giappone certamente, ma ora soprattutto Cina, India e tutto il sistema asiatico). Alle tre porte di accesso al nostro mare: Suez, Gibilterra e il Bosforo, va aggiunto il collegamento a Sud con l’Africa e il Medio Oriente.

Il Mediterraneo sarà di nuovo e per lungo tempo la piazza importante dell'economia globale, con grande vantaggio dell'Italia che è posizionata al suo centro. La storia e la fortuna ci assegnano una ubicazione di assoluto privilegio nel mondo di oggi. Questo non lo diciamo solo noi: lo dice l'economia globale. Soprattutto per le regioni del nostro Sud, si aprono prospettive di straordinario interesse.

Per svolgere il ruolo che la sua posizione geografica le assegna, e attirare l’interesse dei grandi protagonisti del mondo economico e proporsi di occupare una posizione di primissimo rilievo tra le grandi nazioni, l'Italia ha le più invidiabili caratteristiche:

-  un pedigree unico per quanto riguarda la storia e la multiculturalità, essendo stato il suo  territorio attraversato da mille anni di vicissitudini che nei millenni hanno prodotto civiltà, arte, scienze e vivere civile;

-  le straordinarie tradizioni culturali, collezioni di arte, monumenti e architetture: non lo diciamo noi, lo dice l'Unesco;

-  l'alta qualità dei nostri prodotti, ricercati da milioni di consumatori che hanno ormai accesso ai beni e agli stili di vita che si ricollegano al nostro Paese: non lo diciamo noi, lo dicono i mercati del mondo;

 - i livelli di conoscenza e ricerca, la diffusione delle alte tecnologie, la messa a lavoro della creatività intorno ai temi dello sviluppo sostenibile e durevole e della qualità della vita.

Queste caratteristiche positive possono, devono essere assecondate da politiche adeguate di sostegno, valorizzazione e selezione che favoriscano le reali eccellenze.

Non a caso i più importanti centri che si sono affermati nel corso della storia (Londra, Manhattan, Hong Kong) hanno agito da magneti per i principali attori dell'economia: c'è sempre l'interesse dei grandi gruppi economici a stare al centro, purché si tratti di un centro che funzioni.

E’ evidente che le infrastrutture necessarie per rendere l’Italia un centro efficiente vanno al di là delle nostre possibilità, perché presentano costi che non ci possiamo permettere. Ma sono costi che non spaventano certo i grandi investitori internazionali.

Occorre una politica attiva con i rappresentanti dei principali gruppi economici interessati a posizionarsi in un polo efficiente, dotato delle infrastrutture necessarie a creare una grande piattaforma degli scambi. Per metterla in atto bisognerebbe restituire un ruolo alla nostra rete diplomatico-consolare, che nell’ultimo anno sembra aver subito un drastico ridimensionamento, sia in termini di mezzi sia di influenza politica.

Altrimenti quale valore potrà avere la nostra singolare collocazione geografica, se il sistema non funziona? Non possiamo trasformarci in una grande piazza per gli scambi, per il turismo, per le nuove conoscenze, se da noi l'energia costa il 30% in più, se i trasporti non sono competitivi e i costi di distribuzione eccessivi, se le controversie economiche non trovano soluzioni efficaci in tempi rapidi, e se la burocrazia agisce da ostacolo piuttosto che da sostegno alla crescita della produttività.

Alle infrastrutture tradizionali (porti, aeroporti, ferrovie, ponti, strade, ospedali, che hanno segnato le trasformazioni del territorio sin dalla seconda metà dell’ottocento, con il primo traforo alpino per aprire in Italia la “Valigia delle Indie”) tutte da ottimizzare, vanno affiancati investimenti in quelle innovative per il nuovo millennio (risorse strategiche della conoscenza, energie rinnovabili, ICT, aerospazio, per mettere in sicurezza il territorio e renderlo autenticamente sostenibile) e soprattutto quelle culturali (know-how italiano, stili di vita, modelli di multiculturalità, alimentazione, gusto, abbigliamento, qualità, trasformazione del territorio), che indiscutibilmente ci trovano in una posizione di eccellenza assoluta.

La modernizzazione e lo sviluppo delle infrastrutture sono necessari per coltivare quell’humus italico che rende altrove irriproducibile l’alta qualità italiana e che, per questo, può costituire il perno di una nuova centralità dell’Italia nel mondo globale di oggi. La nuova centralità, d’altra parte, moltiplicherà le possibilità per le PMI produttrici di alta qualità italiana di integrarsi nelle global supply value chain del commercio internazionale.

Eppure è incredibile vedere come l'Agenda Monti, come anche i programmi di tutti i grandi partiti, ignorino totalmente il potenziale che l’Italia avrebbe se si affrontasse rapidamente il nodo delle infrastrutture generali, creando in tempi brevi le condizioni per ottenere dall'estero i finanziamenti necessari.

Altri paesi, meno favoriti sotto il profilo geografico, hanno fatto meglio di noi. Ma noi possiamo recuperare. Molti investitori si affacciano al nostro Paese manifestando interesse per partecipare a gare per la realizzazione di ambiziosi progetti d'infrastrutturazione. Anche perché l'Italia è stata uno dei primi Paesi al mondo a investire nei settori delle tecnologie avanzate (energia termica a Larderello, impianti idroelettrici, trafori sotto le Alpi, viadotti mozzafiato).

Ma questi investitori esteri non intervengono perché, a livello politico, manca un “Piano Italia”, un quadro coerente e organico di infrastrutturazione - e non per singoli e frammentari provvedimenti - capace di trasformare il nostro Paese in un centro funzionante, in una straordinaria piattaforma di logistica generale per gli scambi di beni materiali e delle idee.

Attenzione: non si tratta di svendere l'Italia a chi intende comprarsela a poco prezzo, come purtroppo accade ora (vedi Il made in Italy che passa di mano dalle aziende italiane alle multinazionali) ma di governare un processo che assicuri, da un lato, l'infrastrutturazione come posta attiva per l'Italia, dall'altro, i giusti ritorni economici degli investimenti, mantenendo il controllo e la piena sovranità sul nostro territorio.

Non bastano i viaggi-lampo all'estero: tre giorni per visitare quattro Paesi del Golfo, due giorni in Cina. Occorre una vera politica di attrazione degli investimenti, sistematica e ben articolata, che nasca prima di tutto in Italia e nelle Regioni, soprattutto del Mezzogiorno.

Così facendo, potremo trarre i considerevoli vantaggi che il mondo globale di oggi pone a nostra portata, e avviare un’attualizzazione del nostro sistema economico e sociale, che assicuri a tutti, e soprattutto ai giovani, un avvenire sicuro.

Oggi esercitare la sovranità nazionale significa anche saper gestire da padroni di casa un progetto che crei massa critica e rilanci una trasformazione di qualità del nostro Paese, assicurandogli anche per i prossimi decenni una posizione di primissimo rilievo tra le grandi democrazie occidentali.

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