Editoriale

Peggio di una brutta partita a poker, il centrodestra si disintegra

Sembra tutto finito: dal bipolarismo al liberalismo, un popolo indirizzato suo malgrado a sinistra

Giuseppe del Ninno

di Giuseppe del Ninno

ran sparpaglie: nel gergo del poker, questa espressione sta a indicare che le carte distribuite al singolo giocatore non consentono di impostare giochi con un minimo di logica e, dunque, si è costretti a cambiarne i quattro quinti, sperando che un colpo di fortuna faccia imbroccare la combinazione vincente.

Sembra essere questa la situazione del centrodestra, in preda a una vertigine centrifuga capace solo di generare liste e listarelle elettorali su basi personalistiche (mi vengono in mente, alla spicciolata, Meloni e Crosetto, Alemanno e Matteoli, Giannino e Fini, Montezemolo e Storace, Polverini e Tremonti, La Russa e Formigoni, per tacere di Alfano e, ovviamente, dello stesso Berlusconi). Mentre scrivo, i giochi sono ancora in corso; ma si può far politica fidando sulla presunzione e sulla buona sorte, come quando ci si siede a un tavolo verde?

C’è poi la speranza. Soprattutto la speranza di recuperare la rappresentanza dei “moderati”, versione aggiornata della “maggioranza silenziosa” in voga negli anni ’70. Ora, è già stato scritto che la virtù della moderazione, in politica, non è sempre tale e che comunque proprio i “moderati” – o presunti tali – a volte hanno varato le riforme più ardite e opportune: per tutti, basterebbe citare leader del calibro di De Gaulle, De Gasperi e Kohl (e forse rientrerebbero nella categoria personaggi, pur diversi fra loro, come Cavour e Nixon).

D’altro canto, è stato pure ricordato da molti osservatori che i “moderati” non mancano in entrambi gli schieramenti principali; dunque, dando per scontata la persistenza e la permanenza nelle rispettive coalizioni (per dire, un Fioroni o un Ichino nel centrosinistra, un Rotondi o un Mantovano nel centrodestra), se da un lato ne potrebbe derivare un meno difficoltoso dialogo politico, dall’altro si assisterebbe ad una confusione certo non positiva, nel quadro generale.

Quest’ultima considerazione, evidenzia una preoccupazione che non può non riguardare tutti coloro a cui sta a cuore l’acquisizione del bipolarismo: cosa resterebbe di quella parte del “contratto sociale” aggiornato vent’anni fa, in base alla quale, prima delle elezioni, il cittadino sa cosa aspettarsi dal vincitore, in termini di alleanze e di programmi?

E qui torniamo al diffuso sconforto nel campo del centrodestra, che non si è certo giovato dell’appoggio fornito un anno fa al governo Monti e che, paradossalmente, sembra non trarre vantaggio, ora, dall’aver ritirato quell’appoggio. Il problema, a mio avviso, discende – so bene di essere a rischio di retorica – dalla visione del mondo, che dovrebbe guidare chi si presenta nell’agone politico.

In particolare, alludo a quel liberalismo, sotto le cui insegne sembrò nascere la “seconda Repubblica” e che poi si è perso per strada. Focalizzando l’attenzione sul mondo della destra (per ora, lasciamo da parte il centro), non v’è dubbio che la visione liberale sia periferica, se non del tutto estranea a quel mondo, e non è solo in questione l’eredità del fascismo, ma anche l’aggiornamento della nozione di conservazione.

Comunque, senza poter aprire qui un dibattito sui massimi sistemi, se c‘è un discrimine ancora valido, per la corretta dislocazione delle forze politiche, questo passa proprio attraverso i territori del liberalismo e del conservatorismo.

 Tanto per limitarsi a qualche osservazione sparsa: oggi le spinte alla conservazione dell’esistente – in politica e nel paese reale – sono quasi tutte accampate sotto le tende del centrosinistra. Sindacati e finanza, magistratura e pubblica amministrazione (quest’ultima nella sua massiccia base elettorale e nei suoi vertici burocratici) sono, per motivi diversi ma convergenti, alieni da qualsivoglia effettiva riforma delle istituzioni, a partire da quelle – organiche – della Costituzione.

Senza dimenticare l’invecchiamento della popolazione, perciò stesso fisiologicamente aliena dalle innovazioni. Ed è per questo motivo, ad esempio, che stenta a decollare il principio generalizzato della elezione diretta delle più alte cariche (inclusi gli organi di governo dell’Unione Europea: ma questa è un’altra storia, che riguarda anche altri Paesi e che risponde a un pericoloso, diffuso deficit di democrazia).

Ognuno dei soggetti interessati – singoli o collettivi – ritiene più conveniente coltivare il proprio orto, grande o piccolo che sia, a partire proprio dalla classe politica, disposta a frazionarsi, a dissociarsi, a sottoporsi a tour de force negli studi televisivi, nei camper, nei gazebo, pur di “vendere il prodotto”, cioè se stessi. E’ scomparso – tranne che nelle corrive e reboanti dichiarazioni pubbliche - non diciamo il senso dello Stato e del bene comune, ma perfino quello della comunità di pensiero e di vita, che animava i vecchi partiti e movimenti.

Certo, si dice che il popolo italiano è, nella sua maggioranza, contrario alla sinistra; ma forse si pensa ancora a quella di derivazione marxista, che da tempo non esiste più. Io credo che questo nostro popolo sia più timoroso del nuovo e avverta sempre più il bisogno di una tutela statuale.

Da questo punto di vista, invece, sarebbe auspicabile un parziale recupero della visione liberale che, ove attuata, porterebbe uno choc positivo nella vita quotidiana e nei destini della Nazione. Meno Stato, ad esempio, significa oggi scongiurare il rischio di cancellare le libertà individuali e i diritti soggettivi, derivante dalla distruzione delle capacità economiche e delle autonomie patrimoniali delle famiglie (ma poi anche delle imprese medio-piccole). Liberalismo? Può darsi, ma io ricordo anche la lezione di un pensatore controrivoluzionario e conservatore come Plinio Correa de Oliveira, difensore della famiglia, della tradizione, della proprietà.

In un simile contesto, la destra, nel quadro delle alleanze che andranno a formarsi, ha una grande opportunità: dar voce ai cittadini che non si riconoscono più acriticamente nelle attuali appartenenze – corporazioni professionali o sindacali, partiti sclerotizzati – e che non si rassegnano a tenersi lontani dalla politica e dalla civile convivenza, limitandosi all’alternativa fra astensionismo e scelte antipolitiche. Si tratta di avere coraggio e di sacrificare il proprio particulare, sostanziato in una carriera o, peggio, in una passerella. I minuetti in corso – mi presento da solo o con questo e quello, mi ritraggo, no, ci sarò – non lasciano ben sperare.

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