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Pascoli 100 anni dalla morte

Recondite armonie, perverse melodie

Il poeta e la musica del suo tempo da Puccini a Mascagni a Zandonai

di Domenico Del Nero

Recondite armonie, perverse melodie

Pascoli e Puccini a Pescara

Pascoli e Puccini: i grandi fraintesi.

Le poesie di Pascoli  “sembrano perpetuamente oscillare tra il capolavoro e il pasticcio”   e “il meglio dell’arte di Pascoli è nella sua riduzione a frammenti”. Parola di  Benedetto Croce, che dello sminuzzare e frammentare scrittori e poeti – Dante compreso – aveva fatto la sua ragion d’essere di critico, alla ricerca dei bagliori di poesia tra il fango della struttura.  

“Puccini non appartiene ai grandi compositori, ma nei suoi limiti lavorò onorevolmente”; così Donald Grout, autore di una breve storia dell’opera che ancora si usa in qualche corso universitario; una topica mostruosa e una decisa stonatura in un testo che nel complesso è abbastanza pregevole. Per non parlare della feroce stroncatura di Fausto Torrefranca nel 1910, che indicò nell’opera pucciniana il punto estremo della decadenza della nostra musica.

Puccini e Pascoli dunque uniti, tanto per cominciare, nella svalutazione. I nomi dei due artisti, tra i quali corse peraltro un rapporto di viva stima e amicizia, anche se non molto approfondita, sono stati spesso accumunati in una logica perversa che faceva di Pascoli il poeta dei borghesucci e di Puccini il musicista delle sartine.  Ci consoliamo pensando che Pirandello, ancora alla vigilia del primo conflitto mondiale, era considerato un curioso bozzettista e un umorista minore. Lo stupidario della critica batte persino quello degli studenti che però, a differenza dei critici, almeno qualche stupidaggine sono legittimati a dirla; se non altro, non sono pagati per farlo. 

A questo proposito Giovambattista  Cilluffo, autore di un interessante studio su Pascoli e Puccini  due poetiche a confronto, ha dedicato un capitolo alle stroncature di Croce e Torrefranca: “ Pascoli e Puccini divenivano il bersaglio di due antesignani di quella critica ufficiale che avrebbe segnato, per decenni, la frattura profonda tra la popolarità incondizionata di due fenomeni artistici e la loro misconoscenza nel pantheon della cultura accademica.  (…) Sia Croce che Torrefranca, novelli  “guardiani” di una repubblica platonica, sono animati dall’idea di avere una missione di bonifica del gusto, di ripristinare, correggere restaurare, bandire, “.

E’ davvero singolare in effetti come, sia per quanto la letteratura che la musica, il periodo tra il secondo ottocento e la prima metà del Novecento abbia avuto bisogno (e in buona parte, soprattutto per la musica, ne avrebbe ancora) di profondi ripensamenti e  …. Demolizioni di brontosauri.  Tra l’altro, mai come in questo periodo la letteratura  - soprattutto la poesia – e la musica videro i loro destini così incrociati.

Due muse si cercano.

Da Baudelaire a Verlaine, da Boito a Wagner, sorge in Europa tutta una serie di artisti che sognano di portare alle estreme conseguenze l’intuizione romantica della “corrispondenza” tra i linguaggi delle varie arti, soprattutto poesia e musica. Quando, nell’ultimo decennio dell’Ottocento, Giovanni Pascoli si affaccia decisamente sulla scena culturale italiana in campo musicale sta per “esplodere” il fenomeno della cosiddetta  “Giovane scuola Verista”.  Comunque sia, la “Giovane Scuola” a cui si fanno aderire Pietro Mascagni, Umberto Giordano e, sia pure con giustificate riserve e distinguo, Giacomo Puccini (per limitarci ai nomi maggiori) fu soltanto uno degli indirizzi musicali che caratterizzarono, a partire all’incirca dagli anni ’80 dell’ottocento, il dopo Verdi: certo fu quello di maggior successo e di maggior presa sul pubblico, tanto che i musicisti di altre correnti, come la “generazione dell’’80” sparirono quasi tutti ben presto dai palcoscenici, e non sempre giustamente.

Si tratta di “etichette” e tendenze artistiche dai confini spesso incerti e oggetto di grandi discussioni, che riproducono in un certo senso il clima di incertezza e di sperimentazione che caratterizzò l’ultimo scorcio della vita musicale italiana del diciannovesimo secolo. 

Il problema, come bene aveva intuito già nei primi anni ’60 dell’800 il poeta e musicista Arrigo Boito, era quello di rinnovare dalle fondamenta una forma artistica veneranda sì, ma ormai vetusta: il melodramma, che si ripeteva in Italia con schemi e formule sia letterarie sia musicali ormai scadenti, mentre oltralpe si agitavano nuovi fermenti e nuove concezioni; prima fra tutte, quella di Wagner, di cui Boito aveva intuito, pur non senza riserve, tutta la portata rivoluzionaria.

La critica, sia pure indirettamente, non risparmiava neppure Verdi, il quale essendo notoriamente ombroso e rancoroso serbò rancore a Boito per oltre un decennio, salvo poi, auspice Ricordi, iniziare col più giovane e ormai affermato collega un proficuo rapporto di collaborazione. Proprio il Mefistofele boitiano, che trionfò nel 1876 dopo un precedente, clamoroso fiasco, e gli ultimi due melodrammi verdiani, Otello (1887) e Falstaff, (1893) segnarono le nuove vie per il melodramma italiano, che i nuovi compositori non potevano ignorare.

L’aspetto più vistoso del tardo stile verdiano, a cui compositori “veristi” dovevano in larga misura rifarsi, consisteva in nuovo equilibrio tra strumentalismo e vocalità: il canto strofico poi, che nelle sue categorie e schematizzazioni tradizionali era stato alla base dell’opera italiana, non spariva del tutto ma subiva una significativa erosione.

Non c’era  però solo questo, ma anche un rinnovato rapporto tra musica e letteratura, e in questo l’apporto di Boito fu fondamentale: il testo del melodramma, il famigerato “libretto”, non doveva avere più soltanto funzionalità drammaturgica, anche a costo di versi orripilanti (chi non ricorda l’orma dei passi spietati del verdiano Ballo in Maschera )o di situazioni ripetitive di rapimenti, figli perduti e ritrovati, amori impossibili e via … cantando, ma avere una dignità letteraria e una qualità poetica che mirasse all’armonia, alla fusione tra parola e musica.

Per fare questo, l’opera  lirica  italiana si incontrò con la grande letteratura anche – e soprattutto – contemporanea,  ma non per ricavarne puri pretesti teatrali come già era accaduto in passato, bensì per un vero proprio “connubio” che fosse fecondo anche per la musica. In Italia, i casi di poeti – musicisti alla Wagner furono rari (Boito fu il caso più eminente), ma quantomeno ai librettisti non si richiedeva più soltanto una miscela di scene e versi non importa se di infima lega, purché funzionale, bensì un testo drammatico che avesse anche dignità letteraria.

D’Annunzio e Pascoli furono in un certo senso in concorrenza anche su questo. Apparentemente, il vate risulta di gran lunga vincitore, visto che può vantare un numero davvero congruo di collaborazioni musicali: dal Martirio di san Sebastiano (1911), scritto in Francese per  Claude Debussy, il grande impressionista che aveva “intonato” diverse liriche di Verlaine e tradotto il musica il pomeriggio d’un fauno di Mallarmè, alle romanze musicate dall’amico Francesco Paolo Tosti, ai drammi messi in musica da diversi musicisti italiani. Il caso più celebre fu sicuramente Parisina  (1913), la storia della giovane e infelice moglie di Niccolò d’Este, che fu  musicata da Pietro Mascagni quasi in simbiosi con L’immaginifico: una vera e propria storia di amore e morte in puro stile decadente.

In realtà, a d’Annunzio sarebbe piaciuto molto poter collaborare con Puccini; ma non si andò qualche corteggiamento e idee abortite. Anzi nel 1918 Puccini scriveva ad un amico a proposito di D’Annunzio:

«Il Poeta porta male al teatro lirico: passa in rassegna e vedrai che ho ragione. Vi manca sempre il vero e spoglio e semplice senso umano. Tutto sempre parossismo, come tirato, espressione ultra eccessiva.»

Eccesso e parossismo sono due termini che possono ben adattarsi all’operazione di Parisina. E’ noto come d’Annunzio sia sempre stato ossessionato da una sorta di complesso: aveva un bel firmarsi in alcune circostanze Ariel Musicus, ma oltre la poesia e la scrittura proprio non riusciva a andare: non era né Wagner né Boito, per il quale infatti nutriva una insolita ammirazione (peraltro, assolutamente non ricambiata) e di conseguenza non poteva far altro che cercare musicista a cui accoppiare la sua musa poetica. Peraltro Mascagni fece del suo meglio e l’opera è sicuramente degna di interesse; ma questo è un altro discorso.

Pascoli alla ricerca di un compositore.

«Ma io mi sono ficcato in testa di sollevare il dramma musicale nella sua parte letteraria alle altezze in cui si trova in altri paesi e dar mezzo perciò ai musicisti di sollevarsi ad altezze enormi, non più viste. L’Itala Camena e la greca moisa Ligeia mi  aiutino».

Così Pascoli scriveva ad Angelo Orvieto nel 1897 a proposito di un suo progetto di libretto dal titolo Nell’anno Mille; e a tal proposito, in una lettera allo stesso di poco precedente, aveva affermato: «Il libretto è cominciato, mi sembra, molto bene. Vedrai che io mi dedicherò, più che ogni altra cosa, al melodramma che concepisco come una tragedia (…) io dico che apparecchio un tale successo all’operista che lo musicherà, che perderà subito la testa …».

Per la verità, non ne trovò uno disposto a perderci neppure un capello.  Pietro Mascagni, che fu uno dei più corteggiati da Pascoli almeno sino alla “scoperta” di Puccini, si defilò e dal grande livornese Pascoli non ottenne altro che una Myrica, la Sera d'ottobre mentre rimase inedito l'inno latino Corda Fratres, pur musicato nel 1902. E neppure trovò l’accordo con un ben più oscuro Renzo Bossi (1883-1965) il quale avrebbe voluto secondo il gusto dell’epoca un “libretto verista”. Interessante la risposta del poeta.

«Quanto alla verisimiglianza, avverta che si tratta di musica, perciò di idealità, di trascendentalità.  Le paiono verisimili i drammi di Wagner? Verisimili, anzi vere, sono le Cavallerie Rusticane. Ma il loro tempo è per finire; è per finire il tempo dei fattacci di cronaca, vere veri, in cui però c’è la falsità mostruosa di gente che uccide cantando ….»

 Con questo compositore Pascoli ebbe peraltro un rapporto intenso e affettuoso, testimoniato da un nutrito scambio epistolare, ma poco proficuo sul piano artistico. 

Nell’anno mille, ideato a partire dal 1894 e completato tra pentimenti e rifacimenti solo più tardi, nel 1903, prima di poter vedere la stampa postumo, nel 1923, mette in scena una vicenda semplice e terribile, quella dell'ultima notte del Mille con l'attesa della profetizzata fine del mondo, vissuta con alterni sentimenti, ansia da parte della madre di poter finalmente riabbracciare il suo figlioletto morto e terrore della giovane innamorata di non poter rivedere il suo amato lontano: sentimenti che si sciolgono con l'apparir dell'alba del nuovo Millennio, tramutandosi in tripudio per i due amanti finalmente ricongiunti e in disperata disillusione della madre, nel mentre il popolo tutto si abbandona al piacere del ritorno alla vita. Una trama che contiene dunque diversi  topoi  pascoliani,  in un clima decadente che avrebbe ben potuto  - almeno come soggetto –  tentare diversi compositori del suo tempo.

Pascoli riuscì a veder musicati tre testi da Odi e Inni: L’Antica madre, da Giovanni  Zagari  , il Ritorno, dal ben più celebre Riccardo Zandonai  ( 1883-1944) che peraltro mise in musica anche l’Assioloper soprano e pianoforte (ma senza riuscire a evocare lo stupendo climax di tensione e gli effetti sinestetici  che fanno di questa lirica uno dei capolavori del poeta) e infine  Il  sogno  di Rosetta, a proposito del quale Pascoli annotava «Fu  musicato dal maestro Carlo Mussinelli di La Spezia ed eseguito molto bene a Barga»  (nel 1901).  

I buoni risultati riempirono di gioia Pascoli che scrisse al musicista spezzino: «Vedrai, caro mio, vedrai, saliremo assai in alto». In realtà il successo fu di brevissima durata, la composizione approdò a Milano e fu un fiasco tale da far commentare gli editori Ricordi e Sonzogno: «riteniamo che di questa cosa non valga la pena interessarsi».  Senza contare che Pascoli aveva sperato per Rosetta la lira di Puccini. In compenso  però,  Il sogno di Rosetta  ha avuto l’onore di aprire a Barga le celebrazioni del centenario del poeta.

 Ulisse che torna vecchio a Itaca (Il Ritorno) e non riconosce la sua terra, la cucitrice che sogna un sogno d'amore coniugale (Il sogno di Rosetta) rappresentano, con strumenti diversi - il rifacimento omerico nel primo, la commistione di canti popolari nel secondo - tutto il fragile mondo degli affetti in balia del tempo. All'ombra dello sposo che nel sogno vorrebbe che tutto fosse già presente («E tira il vento, muove le foglie, / e l'aria sente di primavera... / Vorrei che in casa fossimo, o moglie... / Vorrei che fosse molto più sera...»), sembra rispondere il coro che al vecchio Ulisse raccomanda: «Vedrai le terre de tuoi ricordi, / del tuo patire dolce e remoto: / là resta, e il molto dolce là mordi / fiore del loto).

A Riccardo Zandonai, che dopo Mascagni fu senza dubbio il musicista più celebre con cui Pascoli riuscì a collaborare, Pascoli confidò il suo progetto musicale forse più folle e ambizioso; nientemeno che un seguito del Mefistofele di Boito. Un carteggio con un giovanissimo Zandonai del 1902, pubblicato già nel Giornale d’Italia del 1924, rivela in dettaglio il progetto. Dopo una serie di proposte alquanto vaghe, tra cui, per una amara ironia del destino, ci fu anche un Paolo e Francesca(e l’opera più celebre di Zandonai sarà una Francesca da Rimini del 1914 ricavata dalla tragedia di D’Annunzio )Pascoli scrive:  «Mefistofele dopo la morte del dottor Faust, continuando a bazzicare la terra, trova la figlia di Margherita (mettiamo che non l’abbia uccisa) , una bimba povera povera, bella come un sole, innocente come l’acqua. (…) la tenta come è suo mestiere (…)  lei dà retta al suo bel tenebroso, ma è così confidente, cos’ carina, che il diavolo in persona ne ha pietà»

Insomma, la figlia di Margherita fa il miracolo di “convertire il diavolo” tanto che Dio commosso lo trasforma in uomo perché possa coronare il suo sogno d’amore …. e conoscere la morte:   «Egli è uomo, morrà ma amerà.»   Amore e morte …. Anche in una favola “a lieto fine” come avrebbe dovuto essere questa, una nota d’inquietudine non manca di affiorare: e il binomio amore-morte ci rimanda, senza dubbio alcuno, a Puccini, spietato “giustiziere” delle sue eroine.  Achille Benedetti, autore dell’articolo sul «Giornale d’Italia», così chiosava il tutto: «In un poeta di così suggestiva musicalità come Pascoli, nelle cui liriche si possono cogliere, beninteso nel senso relativo , temi rapportabili a veri e propri elementi musicali, come nel riecheggiare di armonie imitative nel gioco e nei ritorni di allitterazioni e di ritmi che raggiungono effetti analoghi alla musica (…) si riafferma la incompetenza, la ingenuità per non dire altro, anche dei grandi fuori dalla loro arte.»

Giudizio un po’ duro e ingeneroso, anche se non del tutto infondato; ma il punto non è tanto questo. Per quale ragione Pascoli non poté coronare il suo sogno di essere poeta per musica (e non banale librettista)? Dopo il sostanziale fallimento dell’esperimento di Odi e Inni, Pascoli sembra prendere coscienza del suo fallimento e per giustificare il rifiuto di scrivere un libretto per un giovane musicista lucchese, scrive a un amico il 26 settembre 1908: «Il regno della musica per me comincia dove finisce la realtà pensabile e si apre la misteriosa regione dell’altra poesia … Soggetti di drammi musicali , a parer mio, non si trovano che o nella poesia primitiva epica, dove Wagner li trovò, o nell’eterna poesia popolare della fiaba e della novellina, dove li trova, credo, Debussy, o in qualche altra landa illuminata da un suo sole e da stelle più grandi e più vere delle nostre …. Ebbene, né io mi sono creduto da tanto da viaggiare da questo paese che è al di là della solita conoscenza, ne ho mai creduto che il pubblico d’Italia fosse per accettare da un maestro italiano, specialmente ai suoi inizi, una tal musica e una tal poesia.»

Sicuramente Pascoli aveva ormai perso le sue illusioni sul teatro musicale italiano; eppure, a parte certi soggetti un po’ velleitari, altri – come quello dell’anno mille – non erano poi certo peggiori o diversi di altri che trovarono i loro cantori. C’è da dire che il carattere del poeta non era assolutamente adatto al ruolo di collaboratore di un musicista: per farlo, avrebbe o dovuto essere totalmente docile da assuefarsi alla “tirannia “ di un Puccini (che pure lo ammirava e lo stimava) o abbastanza energico da imporsi a un Mascagni che invece raramente (purtroppo) era capace di imporsi ai suoi collaboratori. Non era l’una né l’altra cosa e quei due toscanacci non erano proprio pane per i suoi denti.

Influenze (più o meno) recondite.

Ma aldilà del “librettista mancato” c’è un altro livello in cui l’influenza di Pascoli si è forse fatta sentire e in maniera altrettanto – se non maggiormente – rilevante di quella dannunziana: ed è quelle di temi, situazioni, sensibilità che sembrano emergere proprio nei due principali compositori dell’epoca.   Il 20 marzo 1898 esce, sul «Marzocco», Digitale Purpurea, che è stata definita «una delle liriche più perverse della lirica decadente italiana.»  In effetti, il sentor d’innocenza e di mistero è reso con l’inquietudine di un eros dalla carica indubbiamente distruttiva.  Sarà forse una coincidenza, ma proprio in quell’anno , il 22 novembre, va in scena a Roma Iris, l’opera giapponese di Mascagni. Non solo l’ingenua fanciulla vittima degli altrui egoismi potrebbe esser benissimo un personaggio pascoliano, ma nel secondo atto, la celebre “aria della piovra” presenta una analogia tematica con la digitale, anche se i famigerati “illicasillabi” ( i versi del celebre librettista Luigi Illica, che Puccini sopportava solo se “corretti” dalla venda di Giuseppe Giacosa)  non reggono certo il confronto con i raffinati versi pascoliani. Eppure …

Maria, ricordo quella grave sera.
L’aria soffiava luce di baleni
silenzïosi. M’inoltrai leggiera,

cauta, su per i molli terrapieni
erbosi. I piedi mi tenea la folta
erba. Sorridi? E dirmi sentia: Vieni!

Vieni! E fu molta la dolcezza! molta!
tanta, che, vedi… (l’altra lo stupore
alza degli occhi, e vede ora, ed ascolta

con un suo lungo brivido…) si muore!»

(G. Pascoli, Digitale Purpurea )

Essa sorride ognor…

Essa sorride … e muor.

Con un estremo spasimo

che par un riso … essa sorride…

e muor, e muor!

E il bonzo a voce forte:

Quella piovra è il Piacere …

Quella piovra è la Morte!

(Luigi Illica, Pietro Mascagni, Iris, atto II, aria della piovra.)

A parte il ritmo musicale dato da Mascagni, che ricorda la sintassi franta e spezzata della Digitale (e di tante liriche pascoliane), l’aria della piovra, anche se in forme poetiche molto più “scontate”, sembra però in qualche modo rifarsi alla “carica velenosa” del piacere e della trasgressione che è l’anima nera della Digitale. Difficile dire se e quale rapporto possa esservi tra i due testi, ma l’analogia di atmosfera è impressionante.

Ma senza dubbio, il rapporto più emblematico al quale già si è accennato, è quello con Puccini: un’amicizia appena accennata e mai del tutto sbocciata e soprattutto una collaborazione mancata della quale in molti si rammaricarono e si rammaricano.

«Malate e stanche di vivere, votate alla morte eppure capaci di denunciare, con stridenti e dolorose risonanze gli orrori di una vita trovata inutile e assurda (le creature di Pascoli e Puccini) sanno, nello stesso tempo, crearsi e crearci mondi di suggestione, di evocazioni e trepidazioni segrete e profonde»  scrive Giambattista Cilluffo,  comparando le poetiche del poeta e del compositore.

Tra le analogie e gli accostamenti proposti, molto suggestiva mi pare quella tra il coro muto della Butterfly (sicuramente, una delle opere più “pascoliane” di Puccini ) e la lirica l’Aquilone ( c’è qualcosa di nuovo oggi nel sole, anzi d’antico: io vivo altrove e sento che sono intorno nate le viole … ), dovuta a tutta una serie di effetti fonici su cui poggerebbero le sequenze memoriali che ricorderebbero il reiterato accordo fa-la-si bemolle su cui si libra la suggestiva nenia del coro a bocca chiusa.  

Ancora più interessante e suggestivo un parallelo di Enzo Siciliano: «Se osservate il modo in cui gli accenti del verso nelle strofe pascoliane sono emancipati dall’accentuazione tradizionale della poesia italiana, la sintonia con Puccini vi si fa chiara. La novità di Puccini, dal punto di vista linguistico, è il prosciugamento della vocalità. Puccini riesce a far cantare una nota sola il sol diesis – Mimì Mimì Mimì –  di Rodolfo al finale di Boheme. Quella nota vale un’aria intera di tenore …»

Ma a parte Butterfly, di cui Pascoli peraltro fu uno dei pochi a profetizzare la riscossa all’indomani della disastrosa prima del febbraio 1904, un’opera di  indubbia ascendenza pascoliana è senz’altro la Suor Angelica, la seconda opera del celebre trittico  pucciniano, già un acuto e intelligente critico dell’epoca, Giannotto Bastianelli scrisse su la Nazione del 12 gennaio 1919 che «La umile poesia conventuale è resa con mollezza di musica direi quasi pascoliana» .

E si può anche indicare i riferimenti nei poemetti Digitale Purpurea e Suor Virginia: amore e morte, estasi mistica, profumo d’erbe e fiori, veleno e oblio, angoscia del peccato e redenzione: Bastianelli aveva visto giusto.   A differenza dal Tabarro, qui non abbiamo elementi naturalistici: solo alcuni tocchi di concretezza, quei canti in lode di Cristo e della Vergine o la voce delle campane, che però diventano elementi funzionali all’accrescersi del dramma personale della protagonista. Puccini fu abilissimo nel fondere le voci all’orchestra, calibrando le sonorità e i colori, sfruttando sapientemente  gli idiofoni in lunghi episodi concertanti assieme alle prime parti di legni e archi,  anche con l’intervento di trombe e corni con sordina. Una musica dunque che evoca un dramma e un’atmosfera sospesa tra la malvagità della terra e un cielo le cui invisibili porte sembrano aprirsi (forse?) solo nel sogno e nella visione.

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