ROBERTO CARIFI

Compassione: l'orto di guerra dei nostri tempi affamati

Le prose poetiche dell'ultimo libro del poeta pistoiese come urgenza della verità

di Giovanni F.  Accolla

Compassione: l'orto di guerra dei nostri tempi affamati

Il libro di Roberto Carifi, “Compassione” (Le lettere, 42 pagg. 9,50 euro),

L’urgenza nell’arte,  soprattutto se combinata con la necessità, è garanzia di riuscita. Non sto parlando di soluzione estetica, al meno intesa come mera qualità esteriore (valla a capire, del resto, la scorza delle cose…), quanto di  percentuale di esito rispetto alla verità. Voglio spiegami meglio: semmai ci sia nell’arte la possibilità di approssimarsi alla verità, tale eventualità si può raggiungere solo per urgenza e necessità. Poi, va da sé, per l’opera esistono mille e più varianti di successo, che includono per fino il caso, ma non è di tali affermazioni che qui stiamo parlando.

Vorrei  raccontare, infatti, il sentimento che m’ha suscitato la lettura dell’ultimo (magro, affilato, essenziale)  libro di Roberto Carifi, “Compassione” (Le lettere, 42 pagg. 9,50 euro), che, urgente e necessario, appunto, s’impone  all’evidenza del lettore quasi con la forza di una verità rivelata.

Mi si passi la metafora: “Compassione” somiglia ad un orto di guerra, a quel luogo pubblico lavorato per la propria sopravvivenza, al fine di  arginare la fame. E qui la fame è quella della conoscenza che dà sazietà e quiete interiore. E’ un libro, questo di Carifi, dell’approdo e dell’abbandono, della parola ritrovata (non solo per metafora lo dico, ma perché davvero rinvenuta dopo una dolorosa malattia dell’autore) tra assenza di desideri e forza del desiderare.

Carifi  è sempre stato un tipo di poeta in Italia assai raro (e non solo per questo un grande poeta). Un poeta che ha sempre fatto della sua scrittura il luogo privilegiato e lo strumento del pensare, e in questo suo ultimo libro di prose meditative o poesie in prosa (non me ne voglia l’autore se così tanto banalmente l’ho percepite), ci lascia parole e pensieri definitivi e mai più equivocabili.

Qui la sua parola scarna, cerca il grado zero, giunge ad una specie di purificazione data dallo spazio, dallo scarto delle parole più che dalla scelta di quelle più opportune. Mi sembra di capire, insomma, che la virtù che Carifi cerca (e garbatamente ci indica) non giunge liberandosi dal male patito attraverso la scrittura (come normalmente avviene e di qui il tradizionale valore auto terapeutico della scrittura), ma, al contrario, custodendolo nell’accettazione del vuoto che esso genera: 

“Il ricordo è dolore, ma anche l’oblio lo è. Si libera dal dolore chi comprende che non c’è da ricordare e nulla da dimenticare.”

Carifi esercita il distacco da sé, rispetto a ciò che egli stesso è stato e a ciò che, semmai, sarà. Ci dice - senza mai dare la percezione di volerci convincere -  che accettando di essere sottomessi alla sola necessità, che è ben altro dal dovere a noi convenzionale, si giunge ad una felicità priva di scopo e quindi autentica. 

La necessità, insomma, nel pensiero di Carifi, sostituisce il dovere: è la accettazione dell’azione non agente dell’individuo che aderisce all’universo intero tanto manifesto quanto ignoto.

“Il distacco è una passione priva di scopo, un amore che lascia andare. Perciò il distacco è compassione per tutto ciò che è.”

Si annulla, quindi, perfino lo spazio. Il vuoto è un nulla pieno di essere perché - per dirla con Eckhart - è vita “senza un perché”. 

“Il risveglio non è un fine né uno scopo. Non bisogna cercare l’illuminazione come se fosse altrove, in un luogo diverso da quello in cui siamo ciò che realmente siamo.”

La adesione al Buddhismo di Carifi, enunciata fin dal titolo, è priva di eco della cultura beat (voglio dire che è fuori dalle mode e dal consumo che se ne può fare e se ne fa), ed  è  - a mio avviso  - un’ ultima ed estrema sua volontà di creare (e di cercare), che è sempre all’interno di una strada coerentemente e faticosamente intrapresa fin dalle sue prime raccolte poetiche.  E’, in estrema analisi,  ancora coerente con quella sua frase che ho carpito da un intervista rilasciata nel 2006: “la filosofia cerca una verità, mentre la poesia cerca la verità.”

Dunque Carifi, ora ci dice che la verità è dentro la vita. Che essa è la vita. Così la parola definitiva del poeta coincide risolutivamente con il suo essere uomo e creatura. Parafrasando Platone del “Timeo”: perché il bene passi nell’esistenza, occorre che esso possa essere causa di ciò che è già interamente causato dal bisogno.

Carifi sceglie, seguendo la sua amata Simone Weil,  di “non essere che un intermediario tra la terra incolta e il campo lavorato, tra i dati del problema e la soluzione, tra la pagina bianca e la poesia, tra lo sventurato che ha fame e lo sventurato saziato”. Intermediario “tra la pagina bianca e la poesia”, Roberto Carifi rimane un grande poeta. Al lettore non importa , tutto sommato, se oggi lo sia forse suo malgrado.

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